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Pagine di diario. Frammenti di quotidiano.

Arrivo tardi (e infinite sono le resurrezioni)

«Nel mio Smarrimento/ pongo la domanda estrema/ Può chi ha smesso di essere/ Avere avuto mai esistenza/ Non più un tu come mittente/ non c’è destinatario/ con cui poter scherzare sulla realtà defunta/ Può chi è ancora/ essere inesistente?/ Sono diventata Cieca/ nel rispondere/ al tuo morto linguaggio d’amore».
Mina Loy

Arrivo tardi anche alla mia festa di addio
è una sorta di funerale storto
in cui sono l’unica invitata

Avete presente quelle celebrazioni sontuose
con feretro al centro in cui
una corda delimita lo spazio
del corpo morente (?)
è ridicola – non trovate – l’ostentazione della distanza
come se la morte ne conoscesse e facesse disparità
Abbandonando la sua livella in un angolo

in attesa che il ragnetto venga fotografato
e gli applausi si esaudiscano
e i cavalli si inchinino
e le bandiere ferme in apnee a mezz’asta
riprendano la risalita

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Il tuo insolito lato pop

Non mi accorgerei dell’amore neppure se mi scoppiasse in faccia.

Quando era giovane aveva creduto che l’amore avesse qualcosa a che fare con la comprensione; ma con l’età aveva capito che nessun essere umano poteva capire un altro essere umano. L’amore è soltanto il desiderio di capire*.
– Graham Green, Il nocciolo della questione, 1948

La notifica dello smartphone, come se fossimo due adolescenti. Ti chiedo di consigliarmi della musica e qualche libro da leggere. Mi dici: Aspetta, ci penso. Ti scrivo: aspetto. Ma poi cancello, e sto in silenzio. Continuo ad aspettare, e non lo sai. Poi la notifica. Le notifiche. La lista della musica e quella dei libri. Un’amica scherzando mi dice “ma dai ti sembrano normali queste canzoni? Sembrate due adolescenti“. Non capisco, giuro che non capisco. Se dovessi leggere il dorso di tutte le canzoni che mi hai inviato in questi tre lunghi anni in cui ci siamo ritrovate, e perse e ritrovate, dovrei pensare al sottotesto. Noi non ne abbiamo. Se dovessi ascoltarne il senso come se fossi una quindicenne, forse avrebbero un senso diverso da questo. Ma, so bene che nascondono il dolore della perdita di figlia. Solo la musica che un’amica passa a un’altra, dico a Simona, l’amica di cui lei in passato sarebbe stata gelosa.
Non siamo amiche, ribatti ogni volta.
Marta, e allora cosa siamo? (ma questo non te lo chiederò mai). Poi mi dico, che importa, hai ragione. Le tue ragioni sconosciute e straniere.

“A volte bisognerebbe sapersi tenere le cose senza un nome, come trovatelli, cose belle come avere caldo e avere freddo e potersi spogliare e potersi coprire, o lasciarle andare, perché si deve, perché si vuole, non perché non si sa come chiamarle”

La frase del libro in cima a molte delle mie agende/sketch book con il nome della sua autrice Anne-Lise Grobéty, il titolo del libro Morire in Febbraio, l’anno 1949. E poi quell’altra frase che a lungo è stata una preghiera a te, al tuo amore, al tuo calore: “Ero così vicina a te che vicino agli altri ho freddo“. Eri la mia signora C.. Credo di non avertelo mai detto, è una cosa stupida a cui pensai quando ti incontrai. Di essere la tua Aude. Sorrido. Quanta ingenuità. Con l’età ho capito che nessun essere umano può capire un altro essere umano. L’amore è soltanto il desiderio di capire*.

Ci siamo. Sei tornata. Ed è una lunga storia.

[…] ti scrivo lettere sbagliate
Quelle vere non toccano la carta
– Marina Cvetaeva, da Lettera a Boris Pasternak

Sei tornata. Qualche mese fa.
Era aprile, la pandemia alle porte, il cuore in subbuglio, le orecchie rompevano un silenzio lungo infinità. Sei tornata. Qualche mese fa. Era aprile. Avevo smesso di aspettarti (o forse no).

Ho letto il tuo nome sul mio display. Aggiorna. La giravolta della rotellina ha sfumato nel tuo nome. In cima alla mail, oggetto: Ci sono.
Ho fatto fatica. Tra i piani confusi di realtà ho sentito il respiro intervallarsi nel petto con lunghi periodi di pausa. Lo ammetto. In quell’apnea emotiva ho consumato il tuo nome a forza di rileggerlo. Due righe, nel tuo stile. Centodiciotto battute in cui rispondi alla mail che ti ho inviato qualche giorno fa. Come state? poche righe, dritte al punto, uno stile che forse mi appartiene un po’ di più adesso, ma che non è mai del tutto mio. Era il tuo. Il mio di indossarlo, è stato un tentativo per rassicurarti, per dirti che avevo ben chiaro il rumore del nostro ultimo addio. Una porta sbattuta e una sorta di preghiera-maledizione prima del tonfo: “possa il mio abbandono raggiungerti“. Lo avevo fatto. Il tuo abbandono, dico, mi aveva raggiunto con la tua maledizione, aveva combinato un casino. Mi ero messa nei casini, ma questa è un’altra storia.

Quando la pandemia è arrivata e il sogno non mi lasciava in pace tutto è sembrato incastrarsi in un pretesto che mi è parso credibile. Era l’ultimo servizio in Tv sui focolai della pandemia. Ho aperto il pc e cercato di mettere tutta la comprensione di quell’addio in una mail inviata dopo anni. Le parole le avevo maniacalmente editate per restringere le battute nel tuo ‘less is more’, in cui io ero stata del tutto cancellata. Pochissimi tasti solo per rassicurarti che quella lettera digitale spedita dopo tanti anni non aveva dimenticato. Nessuna pretesa di vederla tornare indietro con una risposta. La questione era archiviata, me lo ripetevo ormai da anni.
Allora, ti chiederai, perché avrei scritto al tuo silenzio?

Ecco, vedi… ho fatto un sogno, quelli a cui non hai mai creduto perché ha a che fare con le sensazioni, le coincidenze. Sappi solo che, ho rinviato finché ho potuto. Ho resistito più volte alla tentazione di scriverti, ma poi l’ultimo sogno… Era così confuso, così impellente.

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L’invenzione di un amore: la donna in blu, in una notte blu.

Sud del Mondo. Anno domini 2116. Titolo: come si inventa un amore.

Non ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo.
Qualche frase, un accostamento
come avant’ieri al bar, null’altro.
È un peccato, non dico. Ma noi dediti all’Arte
con la tensione della mente – e, ovvio,
solo per breve tempo – creiamo una voluttà
che sembra quasi materiale.
Così avant’ieri al bar – grazie anche all’alcol
e al suo aiuto pietoso e grande –
ebbi mezz’ora di perfetto amore.
Credo che anche tu te ne sia accorto
e sia rimasto un po’ più a lungo apposta.
Ne avevo gran bisogno. Ché malgrado
tutta la fantasia e la magia dell’alcol
m’occorreva guardare le tue labbra
m’occorreva avere accanto il tuo corpo.

Mezz’ora, Kostantino Kavafis

Sai che non dovrei essere qui. In questa isola delle correnti avevo celebrato il mio addio all’ultimo amore. Ora, l’ultimo ha lasciato il posto all’ultimo ancora. E l’ultimo ancora stava per essere insidiato da una lei improvvisa che è caduta nella mia vita una notte blu come il fondo oltremare del mare.

Che significa, mi dice? mentre passeggiamo e la birra si scalda sotto le sue mani impazienti di spiegazioni. Niente Laura, le dico. Poi ti spiego, aggiungo con giravolte di mani nell’aria a disperdere i pensieri blu che voglio definitivamente smettere. Continuando a passeggiare con la testa in perpendicolare alla notte, con lo sguardo che segue le geometrie del cielo tra palazzi sghembi e belli come la miseria di questa città che mi ammala d’amore.

Se alzi lo sguardo, cosa vedono i tuoi occhi? è un rituale che avevo costruito con lei, nella lista degli sconosciuti una notte appena. Subito familiare all’epidermide. Riconoscersi antico, di tempo e affondi di carne e ossa. Di parole come partite a scacchi, in notti di mezza estate con gocce di viola del pensiero negli occhi, a sfidarci con spade di carta e parlarci da un balconcino appartato di notte ingannando la notte che troppo in fretta sorprendeva le nostre voglie.

Fiumi di parole in cui annegare, girotondi intorno al corpo, sospiri sempre più profondi da controllare sul labbro di una pozzanghera di desiderio che doveva essere arginata. E razionalizzata. Una s-conosciuta che era blu come la notte e tutte le sfumature chiare del giorno che ci stava per sorprendere. Blu come la luce di quel lampione tremolante che sbatteva gli occhi sulle nostre parole. La lampada credo stia per fulminarsi, mi disse alzando lo sguardo, piegando la testa, sbattendo le ciglia così lentamente da permettermi di tracciare la linea del suo collo e perdermi nella geometria stretta e perfetta del suo mento greco. No, non lo farà, avrà pietà di noi, forse queste parole le pensai soltanto, forse questa conversazione non ebbe mai luogo, forse la gente intorno non era davvero scomparsa. Una notte blu che durò poche notti ancora. E adesso la dimentico mentre la ricordo. La ricordo mentre cerco di dimenticarla.

https://www.youtube.com/watch?v=vcYEn9b01DM

Una voce mi chiama, afferra i miei pensieri e li accartoccia. Una voce mi chiama, mi afferra, mi accartoccia e pronuncia “ilmionome“. Mi fermo in mezzo alla strada bagnata dalla luce calda dai lampioni, stordita. Come la lepre a Pantelleria che si piantò davanti ai fari della mia auto. Perché hai svegliato la notte? mi chiese (la lepre). Intorno c’era solo buio e gli occhi abbacinati della mia auto, il muso della lepre indispettita che correva via a segmenti obliqui per essere inghiottita da una notte che in quell’isola è mistica. Come me adesso che invoco tutti gli amori che ho smarrito.
Ilmionome” quanto tempo!, mi dice. Posso abbracciarti? mi chiede.
Le sorrido, ma già sono sotto la sua stretta più stretta della notte e guardo dietro le sue spalle. Stacco il mio corpo, sento il rumore della plastica stropicciata, quella posata sui divani in case addormentate nell’assenza; case con le lenzuola sui vetri, con strati di polvere che aspettano un ritorno.

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Gli uomini come loro

Il capannello di uomini si raccoglie proprio dietro le mie spalle. Sento il loro sussurrare, mentre parlo a un pubblico a maggioranza femminile. Gli uomini sono disposti intorno, e mi sembra singolare quella loro scelta di rimanere in piedi. Uno sguardo di disapprovazione gli accende il volto, fanno finta di essere accoglienti mentre pian piano si dispongono intorno abbracciando lo spazio, tutto, senza prendere posto. In piedi, fermi in una gerarchia visiva, tesi a guardare con sufficienza, a ridacchiare di tanto in tanto di quelle donne, professioniste, intellettuali, istruite, potenti, che parlano di cose che forse capiscono appena. Come si fa ad annientare la minaccia? Sembrano pronunciare le loro labbra diffuse in tutto il corpo.

“La tavola rotonda sui diritti a che ora è?”, mi chiede mentre esce dalla doccia prima di darmi un bacio sulla spalla e dirmi “che palle però faremo tardi”. Intanto guardo fuori, è una giornata calda, la pianta di rose che ho comprato ieri brilla al sole, e rimango a fissare la trasparenza che la luce conferisce a delle piccole foglioline sulla cima. “Arriveremo con qualche ora di ritardo, hai già avvertito che faremo il check-in qualche ora dopo? La strada da quella parte è sempre libera”. Mi guardo allo specchio, donna, quaranta anni, professionista, lesbica, in una relazione, forte, indipendente, non abbassa mai lo sguardo. Per loro, semplicemente: stronza. Continua a leggere Gli uomini come loro

Non sapevo che il fermarsi è correre ancora di più

Qualcuno ammonisce il silenzio che riservo al continuo cinguettare del mio smartphone. Brillano come meteore i messaggi sullo schermo indolenzito, a cui non ho voglia di prestare attenzione.
Ho i miei affari di cui occuparmi. Delle mie mani legate. Del mio respiro dimezzato. Della mia attesa. Della mia malattia.

Non sapevo che il buio
non è nero
che il giorno
non è bianco
che la luce
acceca
e il fermarsi è correre
ancora
di più.

dalla raccolta Ancestrale, Goliarda Sapienza

https://youtu.be/MBmDssOeOqU

foto in copertina: Seascapes, serie di Hiroshi Sugimoto

Vedi, il sole declina. Inquadrature

Il vicino non ha ancora potato la siepe di alloro, un groviglio di intrecci, un dedalo di voci inascoltate che svetta nel cielo. La luce riesce comunque a spaccare ogni cosa a metà. Alla mia sinistra il quadrato verde bottiglia della siepe cerca di frenare invano le prepotenze del sole che spinge sulla sua schiena erbosa. Alla mia destra i denti stretti e arrugginiti di una ringhiera di ferro.

Taglio la scena. Lo sguardo non più timido insegue la linea d’orizzonte, sino a conquistare la metà opposta di un verde paglierino, ecco che alla destra del padre la luce si erge, esplode e delicata si inscrive su spilli di foglie dorate.

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Io sono metà [Finali aperti #2 ]

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.»
Prospero, atto IV, scena I, La Tempesta, William Shakespeare

Qualche giorno dopo.
L’alba è trascorsa da qualche ora nella stanza addormentata. Ho squarciato il velo, sorpassato la linea onirica, il mondo parallelo mi ha invitata, ero lì, eri lì. Ho sentito. Ti ho sentita. Immersa nel sonno, aggrappata a quel momento che sembrava così reale. Ero io, eri tu. Parlavamo, tu stavi per dirmi qualcosa di importante. Poi, lo strappo. Qualcuno mi chiama, infila le sue mani nel sogno, ma la voce non è che un solletico. Il mio corpo galleggia. Mi muovo nel liquido amniotico del nostro “noi”. Tu e io. Trapassate remoto. Lo senti questo continuo ripetere il mio nome? Ti dico, mentre parliamo e la tua voce riesco a malapena a sentirla, sembra quasi tu stia mimando il tuo disappunto, come qualcuno che mette improvvisamente muto alla scena nodale del film. Quella che aspettavi. Dannazione, ma davvero non la senti? Ti dico, infastidita, come se le tue parole si spegnessero in gola e i solfeggi della tua rabbia fossero voluti. Ma c’è dolcezza nello sguardo che ci coglie, lo sento e rapisce la mia attenzione. Sono combattuta. Dimmi, presto, ti esorto. Ti prego… soffiandolo quasi sulle tue labbra. Mi volto indietro la voce non la sento, ma so che è lì, che svolta veloce imboccando il tempo che abbiamo già iniziato a sottrarci. Dimmi… ho la testa china. Il cuore l’ho lasciato sul pavimento e il mio sguardo ha già gli occhi chiusi sul dispiacere di lei che mi chiama dall’altra parte del sogno. La nostra realtà ci aspetta. Ecco, la senti? Questo è il mio nome, le dico, ma so che è un’altra bocca a scandirlo amorevolmente.

Non posso andare via adesso, ho sibilato a lei, il mio altrove che mi bacia sulla fronte e scende sulle mie guance e sfiora le mie labbra. Tu continui a parlare, non te ne curi. Ignori il mio nome sulla sua bocca e intanto lo sguardo si appanna e non riesce a metterti a fuoco del tutto. No, non come una visione che inghiotte se stessa da dentro. È più che altro come se fossi una Alice al contrario che diventa piccolissima (Eat me / Drink me), prima come una bimba, poi sempre più piccola, come un colibrì che ruota veloce con le sue ali variopinte fino a diventare un punto e poi un refolo di vento.

No, ti prego, non posso andare via adesso. Non andare… Lo dico con troppa poca voce cercando di aggrapparmi a una stanza che intanto scivola via. Dove sei andata? Stavamo parlando. Di cosa? Al mio risveglio ogni cosa sarà perduta, ti nasconderò in frasi che nessuno potrà capire. Il pavimento si è inclinato e io cerco qualcosa a cui afferrami. Dove sei finita?

Amore, svegliati... mi dice. Le sue mani sulla mia schiena si muovono piano scendono sul mio viso, le sue labbra si schiudono sulla mia fronte e poi scendono soffiate sulle labbra. Il mio corpo è caldo, il sonno non vuole lasciarmi andare, voglio rimanere ancora in questo mondo sospeso.

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Telleena dove sei? dove vai?
Telleena rimane sullo scoglio a guardare il mare incresparsi, quasi arricciasse il naso e iniziasse tumultuoso a raccontare la sua storia. Ma non sempre lei è pronta ad ascoltarlo, anzi, per dirla tutta, quelle parole si trasformano nelle sue orecchie come un sibilo, un accompagnamento ai suoi di pensieri. “Ninnananna ninna oh!”… sempre più piano. Continua a leggere 404 file not found [controfavola]

Finali aperti. Prima di sognarti. Prima di cadere.

È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha sigillato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.

S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.

Goliarda Sapienza

Scrivo parole incomplete, prendo suoni a casaccio dagli alfabeti che mi si formano davanti, mutevoli e silenziosi, chiassosi, acquattati, timidi, rivoluzionari. La musica riempie ogni buco, si mescola con la muffa alle pareti, gli angoli scrostati, la pila di libri, i vestiti dismessi, i piatti nel lavandino, le foto dell’ultima mostra sul tavolo, l’agenda scarabocchiata, un appunto scritto sulla pagina di un vecchio calendario 2015. Continua a leggere Finali aperti. Prima di sognarti. Prima di cadere.