Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.»
Prospero, atto IV, scena I, La Tempesta, William Shakespeare
Qualche giorno dopo.
L’alba è trascorsa da qualche ora nella stanza addormentata. Ho squarciato il velo, sorpassato la linea onirica, il mondo parallelo mi ha invitata, ero lì, eri lì. Ho sentito. Ti ho sentita. Immersa nel sonno, aggrappata a quel momento che sembrava così reale. Ero io, eri tu. Parlavamo, tu stavi per dirmi qualcosa di importante. Poi, lo strappo. Qualcuno mi chiama, infila le sue mani nel sogno, ma la voce non è che un solletico. Il mio corpo galleggia. Mi muovo nel liquido amniotico del nostro “noi”. Tu e io. Trapassate remoto. Lo senti questo continuo ripetere il mio nome? Ti dico, mentre parliamo e la tua voce riesco a malapena a sentirla, sembra quasi tu stia mimando il tuo disappunto, come qualcuno che mette improvvisamente muto alla scena nodale del film. Quella che aspettavi. Dannazione, ma davvero non la senti? Ti dico, infastidita, come se le tue parole si spegnessero in gola e i solfeggi della tua rabbia fossero voluti. Ma c’è dolcezza nello sguardo che ci coglie, lo sento e rapisce la mia attenzione. Sono combattuta. Dimmi, presto, ti esorto. Ti prego… soffiandolo quasi sulle tue labbra. Mi volto indietro la voce non la sento, ma so che è lì, che svolta veloce imboccando il tempo che abbiamo già iniziato a sottrarci. Dimmi… ho la testa china. Il cuore l’ho lasciato sul pavimento e il mio sguardo ha già gli occhi chiusi sul dispiacere di lei che mi chiama dall’altra parte del sogno. La nostra realtà ci aspetta. Ecco, la senti? Questo è il mio nome, le dico, ma so che è un’altra bocca a scandirlo amorevolmente.
Non posso andare via adesso, ho sibilato a lei, il mio altrove che mi bacia sulla fronte e scende sulle mie guance e sfiora le mie labbra. Tu continui a parlare, non te ne curi. Ignori il mio nome sulla sua bocca e intanto lo sguardo si appanna e non riesce a metterti a fuoco del tutto. No, non come una visione che inghiotte se stessa da dentro. È più che altro come se fossi una Alice al contrario che diventa piccolissima (Eat me / Drink me), prima come una bimba, poi sempre più piccola, come un colibrì che ruota veloce con le sue ali variopinte fino a diventare un punto e poi un refolo di vento.
No, ti prego, non posso andare via adesso. Non andare… Lo dico con troppa poca voce cercando di aggrapparmi a una stanza che intanto scivola via. Dove sei andata? Stavamo parlando. Di cosa? Al mio risveglio ogni cosa sarà perduta, ti nasconderò in frasi che nessuno potrà capire. Il pavimento si è inclinato e io cerco qualcosa a cui afferrami. Dove sei finita?
Amore, svegliati... mi dice. Le sue mani sulla mia schiena si muovono piano scendono sul mio viso, le sue labbra si schiudono sulla mia fronte e poi scendono soffiate sulle labbra. Il mio corpo è caldo, il sonno non vuole lasciarmi andare, voglio rimanere ancora in questo mondo sospeso.
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