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Il punto di non ritorno

«Desiderio di cose leggere/ nel cuore che pesa/ come pietra/ dentro una barca – / Ma giungerà una sera/ a queste rive/ l’anima liberata: […] salperà – […] per un’alta scogliera/ di stelle» – Antonia Pozzi, da Desiderio di cose leggere, 1° febbraio 1934

Rosangela Betti, Barbara, 1984
Rosangela Betti, Barbara, 1984

Ho messo play, If I we be wrong riempie la stanza. Ho iniziato a collezionare musica nuova da quando ti ho conosciuta, per mostrarti qualcosa di bello, tu che ami la musica e me la ridavi come un regalo lasciato sul comodino. Ma sono tornata su questo foglio per un’altra ragione e solo per pochissimi istanti, perché mi sono presa una piccola pausa. Lo so è tardissimo, ma devo consegnare un lavoro domattina anche se al momento non riesco a concentrarmi del tutto, forse saranno i piedi gelati, così tanto che sento bruciare la pianta in alcuni punti e in altri la sensibilità è scarsa. Sono scalza e non ho nessuna voglia di cercare dei calzini. Ricordo quando li prendevi tra le tue mani grandi e li scaldavi, e mi coprivi la notte. Chissà se  mi hai mai guardata dormire con quella tenerezza che gli amanti si scambiano. Cerco di catalogarli i ricordi per lasciarli da qualche parte stanotte. Ho scatole pronte, chissà quante ce ne vorranno. Chissà se dovrò mettere fuori anche un’etichetta. Ma perdo il filo, filo… devo smetterla. Ed è questo il punto, ho letto la nota di prima ed è pazzesco questo inconsapevole altalenarsi nel rivolgermi a te e poi distogliermi. Si sente la lotta e l’abbandono. Ritorna l’immagine di quelle mani che si lasciano. Ritorna, ritorni. Forse potrei lasciarmi solo del tempo e rivolgermi a te ogni tanto, quando sarà inevitabile coglierti nelle cose che mi ricorderanno di un noi che dopotutto non è stato coniugato abbastanza. Eppure sembra avere tantissimo dentro. Eppure sembro avere tantissimo dentro.
Lo so, non sono ancora pronta, avevi ragione tu sulla storia del pensiero e dell’assenza, del fatto che anche se ci saranno altri e altre il pensiero rimarrà altrove. Come un marchio indelebile, e chissà per quanto. Lo so, ci sto provando, ma non sono ancora pronta. Mi sto violando, costringendomi solo per farmi del male, perché sarà quello il punto di non ritorno e io non potrò fare nulla, così darò una scusa a entrambe. Scavalco la linea. Così… Domani.

Vado a bere, il freddo ormai non lo sento più.

http://youtu.be/jGuqb1O5-5s

La prima corrente è stata un addio

Giusto chiederselo: chi sei Teleena?  Cos’è questa Isola delle Correnti?
Io spiegherei che sono la maschera di me stessa e poi riassumerei la nascita di questa zolla di terra galleggiante con una bellissima frase di Antonia Pozzi: «Se le mie parole potessero essere offerte a qualcuno questa pagina porterebbe il tuo nome». La mia Isola delle Correnti si genera dalla sostanza della tua epidermide, del tuo odore straniero e delle mie parole che ti hanno via via perduta.

Passi consumati e stanchi mi hanno trascinato fino alla bocca di questo foglio elettronico. Penso sia una cazzata scriverti qui con voce sorda, eppure lo faccio. Incartando parole che scivoleranno nel cassetto di altre e altri sconosciuti, ma non nel tuo. Il fatto è che, vedi, in questa nostra relazione, in questo groviglio di intenti in cui ci siamo smarrire ho spinto le parole dentro cavità così asciutte che il ventre si è lacerato. Sto partorendo a stento questo addio lungo molte estati.

Mi abbandono a questa corrente salmastra, nell’Isola che ci ha visto perdute prima che smarrite. Sì che in questi anni ti ho parlato. Sì che ti ho scritto, ho tratteggiato parole su parole come quei castelli dell’infanzia. Parole che poi andavano perdute se un’onda improvvisa arrivava a sorprenderci. Ho parlato a parole lente, ho scritto con una calligrafia gentile e studiata. Ho anche urlato. Adesso voglio stendere queste parole alla solitudine dello sguardo, affidarle alla voce di carta di Telleena. In questa cattedrale di acqua salmastra e carta tu continuerai ad esistere in me.

Io Telleena sono nata dentro una corrente contro, un giorno nella distrazione della tua voce. Questo nome ha una ragione che nessuno conoscerà, è il battesimo che mi desti distrattamente un giorno. Questa isola rimarrà invisibile e sconosciuta davanti ai mattoni ordinati dei tuoi palazzi. Qui si collezionano lettere inutili per una destinataria inconsapevole.

Tutto è iniziato per pura sopravvivenza. Dopo la ribellione a voler essere ciò che ero, a non essere ciò che gli altri volevano che fossi. A un certo punto della storia è arrivata la vita munita di forbici, ago e filo. Le cuciture non sono mai state perfette, i tagli neppure e qualcosa è andato perduto. Ho imparato, ho indossato, sono stata indossata. La ribellione a un certo punto ha rischiato di diventare adattamento. L’adattamento è diventato stanchezza. Una giostra in cui l’unico scampo era ricominciare tutto dall’inizio. Il mio peccato è stato sempre quello di lasciare che il resto mi abortisse. Così la rabbia è diventata l’unico strumento, a volte l’unica parola. Ostile. Io ero, sono ostile. Dietro la mia timidezza c’è la mia rabbia. Dietro la mia rabbia c’è la tenerezza. Le mie parole le partorisco dalla mia bocca feritoia. Talvolta è stretta, talvolta si allarga per far passare fazzoletti bianchi laceri e ingialliti.

Devi aprire la bocca il più possibile e urlare. Loro escono, le parole. Dicono pressappoco così: “Sono qui! sono qui (con meno enfasi) guardatemi”. Nessuno mi riconosce se non sono la prima a farlo. Qui oggi io nasco in una corrente qualunque, la prima.

Prendo il nome che lei mi ha dato nel battesimo del suo corpo prima che l’abbandonassi. Recupero una frase da una delle tante pagine di diario in cui le parole si incastrano a disegni, segni, ferite e scatti rubati.

Dicembre 2008:

«Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; per altri ancora, essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita. Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?».
– Fernando Pessoa, da Una sola moltitudine, I Traduzione di Rita Desti, Maria José de Lancastre, Antonio Tabucchi, 1979 Biblioteca Adelphi

Io sono Telleena la donna che non incontrerete per strada. Sono la coscienza spenta nell’atto di un amore tossico che tutti noi prima o poi viviamo.