
«Mi spaventa la mancanza di quella lei che non mi ha mai sfiorato, l’amore mi tiene schiava in una gabbia di lacrime. Mi mastico questa lingua con cui non posso mai parlare. Sento la mancanza di una donna che non è mai nata. Sono anni che bacio una donna che dice non ci incontreremo mai […] una canzone per la mia amata, che sfiori la sua assenza, il battito del suo cuore, le briciole del suo sorriso. […] lei è il giaciglio su cui non mi allungherò mai e la vita non ha senso alla luce di questa perdita […] tagliatemi la lingua, strappatemi i capelli, mozzatemi gli arti, ma lasciatemi l’amore, preferirei aver perduto le gambe, che mi avessero strappato via i denti, cavato gli occhi, piuttosto che aver perduto l’amore. […] l’ora felice in cui la lucidità mi fa visita. Dolce oscurità che mi penetra gli occhi. Io non conosco peccato, questo è il male del diventare grandi, questo bisogno vitale per cui morirei, essere amata. […] una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente» – Sarah Kane, tratto da Psicosi delle 4.48
Apro il file e lo richiudo. Un bianco che è troppo bianco, mi fissa, distolgo lo sguardo in un qualsiasi punto della mia vita che non faccia male. Ho i sensi indolenziti mentre traccio linee da me al resto, pianifico, aggiusto, perdo e ritrovo (mi). Misuro a boccate e passi come se potessi davvero compierli quei programmi che ho in testa, come se potessi davvero far finta di niente. Il tuo nome cerco di non usarlo più tra le filastrocche delle mie giornate, non sempre ci riesco. Anche perché nessuna delle due ha mai deciso tutto questo. Questa volta, non ci siamo dette addio, non abbiamo litigato, pianto, urlato. Questa volta, abbiamo semplicemente smesso di cercarci, come se fossimo un appuntamento andato a male. Scivoliamo via come il sapone che sfugge dalle mani e slitta lungo tutta la superficie della vasca. Non riusciamo ad afferrarci. Abbiamo smesso di provarci. Abbiamo smesso. Semplicemente. Tristemente. Cordialmente però, con una cura che abbiamo perso.
Ehi… Ci scriviamo dopo giorni di silenzio, ci scambiano ‘come va’, ‘sto bene grazie e tu?’, ‘ha nevicato’ e ‘qui c’è il sole’. Poi sgraniamo la lista delle cose da fare e quelle già fatte. Comprare latte, croccantini, salviette struccanti, fare il tagliando alla motocicletta, pagare la luce, controllare il cuore… Ti parlo con dolcezza, quella davvero non è costruita, ma è come se con una mano fermassi il resto filtrandolo dall’amore inquinato, che non riesce a reggere più questa prolungata assenza, che reclama corpo, mani, labbra, saliva, pelle, ossa, sangue, umori. Ci parliamo nella distanza di un addio a fior di labbra. Nessuno delle due osa dirlo. Tu mia Euridice hai passi sempre più assenti, sento la fragilità dello strappo saggiare la mia epidermide consumata. Non devo voltarmi, non devo voltar… Mi preoccupo (e dovrei smettermi) della tua febbre, ti chiedo del cane, se hai mangiato, se guardi il tuo programma preferito, qusnto durerà il tuo viaggio di lavoro a Chicago… e lascio cadere quelle domande che hai ripreso a farmi, che da tempo non facevi più. Mi chiedi di leggere le cose che ho scritto, lascia che gli dia un’occhiata mi dici mentre smetti i panni di manager frenetica e altezzosa. E mi chiami amore. Traccio con le dita le tue note ai margini del capitolo del libro che devo inviare all’editore. Apri frammenti di tempo in cui ritrovarci, tessi filastrocche e storie per me, mi suoni qualcosa al piano e la tua voce roca mi percorre tutta come la prima volta. Se chiudo gli occhi vedo il mio corpo schiacciato sul pavimento di casa tua sotto il peso di quel divorarci pelle a pelle. La prima volta. La prima volta con il tuo sapore in bocca, i tuoi graffi come marchi che dicevano sei mia qui e qui e qui e ancora qui. Solo mia. Ero. Solo mia. Eri. Di notte il telefono squilla e mi chiedi di leggerti le poesie che sto leggendo, di mostrarti le foto che ho scattato. Continui a chiedermi, inseguirmi, ma non riesci ad ammetterlo (a te stessa prima di ogni altra cosa). Lo senti anche tu vero? Scivolo via. E io, io beh non riesco a crederti. Ti rispondo ‘sì sto bene‘, sì tutto bene, e sorrido anche se non mi vedi stretta nell’inganno che ci tiene a galla, sorrido mentre spingo sul tuo petto l’estraneità in cui piano sprofondiamo (riesci ad afferrare la mia mano?). Accenno solo frasi a metà ‘sono stati giorni un po’ difficili‘, ti dico, senza dire che è stato davvero difficile: i problemi in famiglia, mio padre in ospedale, l’operazione di mio nonno, le continue corse in un lavoro che poi non dà quanto deve. Non ti dico che è difficile alzarsi la mattina e trascinarsi fuori. Non ti dico quanto abbia bruciato la tua assenza quando ricevendo quei premi tu non eri lì a cogliermi. Ricordi il mio rossetto rosso e lo sguardo assente? La foto che ti ho inviato poco prima di salire sul palco. È un premio importante devi essere fiera di te stessa, mi hai detto a chilometri di distanza. Ci sarò la prossima volta. Ma poi la storia si è ripetuta, sguardi compiaciuti fasciati al mio corpo, sorrisi di circostanza (i miei) mentre registro la tua assenza.
Dove siamo? so che non ami sentirlo. Mi digerisci, ma non vuoi ammetterlo. Ed è così difficile inventare sempre una scusa plausibile per dire ‘no’ agli amici; gestire quei girotondo nevrotici in cui continuamente chiedersi da dove cominciare per stare meglio. Stai male anche tu, lo so, ed è forse questo il punto, ci trasciniamo in fondo senza che nessuna delle due riesca mai a essere sostegno per l’altra.
Punta a punta, respingenti. Uno strappo lento e stanco, che ormai la stretta afferra i polsi al vuoto. Le nostre voci hanno lasciato spazio ai cinguettii del telefono, dopo che i corpi si sono dimenticati (la tua saliva, il tuo sapore, le mie mani nella tua carne…) e il tocco si è avvizzito nelle sospensioni di un letto vuoto e desideri soffocati a morsi sul cuscino. I secondi sono diventati minuti, i minuti giorni e poi settimane. Ci sono gli occhi di altre donne, le loro lusinghe, mi raggiungono, le allontano. E fa male. Quella notte, in cui ho affondato lo sguardo nello specchietto dell’auto, il trucco disfatto da baci ebbri e affamati scambiati con uno sconosciuto. Se Luca non mi avesse tirata via da quella me avvilita per la tua assenza. Che cazzo stai combinando? dalla sua bocca è come se fosse uscita la mia voce. Ero io stessa a rivolgermi quella domanda. Ti ho detto tutto, quella stessa notte, in bilico su me stessa. Appoggiata sul pavimento, il buio piano si smarriva nell’alba che filtrava dai denti stretti della serranda, la camicia con ancora l’impronta di quell’uomo, i piedi doloranti, le mani che sfilavano via i tacchi e il telefono che squillava per rompersi nella tua voce e nelle mie lacrime. Ti ho detto che smettevo di essere tua, punivo me stessa dicendoti la verità. Ad accogliermi fu un lungo silenzio, il tuo respiro sottile, un singhiozzo e poi un perdono che ci spezzò comunque. Coniugavamo un mai e stabilivamo le regole.
Iniziai ad allontanarmi consapevole che nessuna delle due meritasse quel perdono. Dovevo recuperare me stessa. Devo. Ho preso decisioni, ho sentito quell’energia che da tanto mi manca, ho pensato che fosse, dunque, la decisione giusta. E forse lo è davvero. Forse è questo che fa davvero male, questo imporsi di non chiamarti, di non cercarti e rispondere alle tue domande senza traboccare.
È tutto così eccessivo, lo è sempre stato tra di noi. Quella notte in cui mi chiamasti delirante di febbre fosti così dolce a scioglierti in un pianto che declinava il mio nome in voglie che da tempo non mi facevano sentire più tua. Ma poi, poco prima di addormentarti, hai detto anche altro. Mi spaventa amarti, hai biascicato prima di addormentarti. Sono rimasta al telefono, ti ho ascoltata dormire a lungo (come spesso accade) mentre ripassavo nella lingua le tue ultime parole. Mi accorgo di essere tiepida appendice, che il tuo concetto di amore e interezza è stabile in te e profondamente radicato, c’è poco spazio per il noi. Potremmo dunque continuare ad amarci così, e smettere di amarci così. Potrei scrivere questo in quel foglio bianco che assilla queste parole a metà che si spengono nella gola, questi pensieri abortiti. In qualche maniera devo dirtelo perché non so se il merito sia tuo: in questa debolezza che mi trascina c’è una sottile ribellione, la voglia di riprendere in mano le cose, di riprendermi e forse conoscermi per la prima volta. La cosa che più mi spaventa, però, è che mi porti definitivamente lontano da te.
http://youtu.be/rK_Q1sxoDuQ
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