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La casa vuota

“Siamo tutti case vuote
e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi

Ferro 3 – La casa vuota, film di Kim Ki-Duk

La finestra della casa vuota si è accesa, lo fa sempre, ogni sera, come se sorreggesse la luna. Oggi il cielo è nuvolo, la luce si espande, amplifica le seduzioni della luna. Questa notte il suo volto non sarà mostrato. Non vi è orizzonte dal quale scorgerla, tutto si fonde con questo immenso cappello di nuvole grigie. Sotto a picco c’è quella sola finestra quasi fosse sospesa in questo notturno. Ingabbiata dalle ragnatele di un albero ossuto, qui da prima che io nascessi. Cosa avvenga in quella casa vuota non posso che immaginarlo, anche se neppure tanta impegnata ostinazione mi porta ad abbozzare alcuna storia. C’è assenza, sottrazione, in questo quadrato notturno dove il mio sguardo si spegne.

Quella è la casa vuota, che di giorno mostra un volto grigio e avvizzito, di cemento dimenticato, grigio più del grigio. Quella finestra che a ricordarla di giorno (se chiudo gli occhi) pare murata.

http://www.youtube.com/watch?v=CZ9zk7_lm2M

 

Chiedi alla polvere

Statua cimitero monumentale di Milano
Statua cimitero monumentale di Milano

Perderci la vita
battendo quel solo chiodo
estendendo il dominio a quel centimetro
là concentrandolo
sprofondare
fare l’abisso con le proprie mani
spezzettare in atomi
molecole
rompere anche gli atomi
la polvere che resta sulle dita
ti segna in eterno
indossa guanti
metti le mani in tasca
tagliati le mani.
Bartolo Cattafi

Impazienza d’amore, le mie pelli asciutte dovranno scontare sempre questa condanna. Una fame che digiuna. E ogni volta che i miei denti affamati affondano in carne ‘adultera’ io sento il sapore del dolore indolenzirmi la bocca. Il sangue gela, la mano trema e il tocco diventa ferita netta sulla mia pelle. Spezzo l’abbraccio, ripudio la carezza, come se le dita bruciassero. Una febbre che sto imparando a dissimulare. Quanto fa male la bugia che mi partorisce. Chiedi alla polvere, è lì, è in quella tua pozzanghera di nonamore che sono. Ancora.

[la canzone che mi lasciasti poco prima che io andassi via. così diversa da te. mi sentii impotente dentro la stretta di quel presagio triste]

http://youtu.be/rEXhAMtbaec

Infondoallapagina

– Ti odio – mi disse.
Lo sentivo quest’odio, potevo quasi annusarlo, o udirne il suono, ma sogghignai di nuovo. – Lo spero bene, ribattei. – Chi si attira il tuo odio non può essere altro che un tipo in gamba. – Chiedi alla polvere, John Fante

Salva Bozza

Ti amai, anche se forse
ancora non è spento del
tutto l’amore.
Ma se per te non è più tormento
voglio che nulla ti addolori.
Senza speranza, geloso,
ti ho amata nel silenzio e soffrivo,
teneramente ti ho amata come
-Dio voglia- un altro possa amarti.
Aleksandr Sergeevič Puškin 

Nan Goldin, Kathe in the tub, West Berlin, 1984
Nan Goldin, Kathe in the tub, West Berlin, 1984

Ho cliccato su ‘salva bozza’. Era il primo maggio. ‘Salva bozza’, mi è parsa un’ironia adatta a noi, che non siamo più Noi, non siamo più due, un insieme spezzato. Stanotte mentre lavavo i denti, con movimenti netti e regolari, mi sono lasciata inebetire dai ricordi. Ti sei riflessa nello specchio e mi hai guardata. Ho pensato che ora (da un po’) siamo un ‘less’, la condizione della grammatica inglese che è la più adatta a raccontarci. Gli inglesi sono così pragmatici, come te dopotutto: cordless, tastelesscareless, endless. Siamo una sottrazione. Te senza me, io senza te. Suffissi l’una dell’altra. Così queste parole vengano pure al mondo, imperfette e straniere in questo mare che pian piano ritira le sue maree e mi lascia solitaria e sconfitta. Continua a leggere Salva Bozza

Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Distortion - André Kertész
Distortion – André Kertész

Sono di nuovo qui, ho slegato il filo stretto sulla scatola su cui ho inciso il tuo nome. Il sottotitolo continua a restare il mio, sbiadito e assente sotto il peso del tuo. Le parole non sono mai scelte per caso. Ci sono parole che ci appartengono, parole che ti appartengono e che non pronuncerò più. Ci sono parole come filo, manine, topina, milano, kate bush, gravità, chilometri, solo tua, scopami, tu, io, stiamo insieme, curami, prendimi… Ci sono parole, le più stupide, le più necessarie, che la lingua non articolerà più nella bocca. Ed è una già sconfitta, questa grammatica assente che ti restituisco adesso. Ed è già una menzogna quella che il linguaggio (mio) ha imparato, e le mani (sebbene talvolta si ‘muovano a vuoto’ sulle linee immaginarie del tuo corpo assente, in spasmi che non riesco a controllare). Sono gli altri a credere alla menzogna, sono gli altri a volerlo credere, perché così è più comodo. Mi chiedono, ma in realtà non lo fanno, non sono  interessati alla risposta. Non alla verità. Mi guardano, ma in realtà non mi vedono. E preferiscono credere che sì, sia difficile, ma che io stia meglio. I miei occhi però non hanno imparato quella menzogna, sarà per questo che evitano il mio sguardo. Lo evito anch’io, distrattamente davanti lo specchio sistemo le ciocche ribelli e osservo il mio nuovo taglio. Distrattamente ignoro i nasi dei miei occhi cedere alla gravità (gravità…). Fanno male le attenzioni ancor più della solitudine. Non busserò più alla tua porta e tu, tu non lo farai. Lo abbiamo deciso sbattendoci in faccia il primo (l’ultimo, quello lungo e perpetuo) silenzio, quasi un mese fa. Quasi un mese fa. Ma ero gocciolata lenta da te, da oltre un anno. Ho imballato i se e i ma con quella carta trasparente da imballaggio che mia sorella ama far scoppiare con le sue dita impazienti. Ho fasciato al corpo di quei se-ma strati e strati di carta, per tenerli in fondo a quella scatola, e zittirne i chiacchiericci. Continua a leggere Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Battipanni liberi tutti

Battipanni | carpet beater

In un campo
io sono l’assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.

Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.

Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
– Mark Strand, Tenendo le cose assieme

Il telefono squilla le sue necessità come fosse un metronomo, in una scansione ritmica che non è la mia. La mia corrente è lentissima oggi, così lenta che pare immobile. Così indugio al sole, alzo un po’ il viso come in attesa di essere ritratta. E mi pare una mano calda che scioglie ogni resistenza. Il mio balcone sembra infinito, e i palazzi si assottigliano sino a scomparire. Una mosca mi vola vicino, un’ambulanza si allontana velocemente dal mio epicentro emotivo, una donna sbatte con forza un vecchio tappeto e la polvere si alza nell’aria come fossero denti di leone. Il rumore sordo che provoca ha un’eco profonda che mi riporta indietro: il battipanni in vimini di mia nonna, io impegnata a far volare la polvere colpendo sempre più forte sulla pelle abbandonata di quel tappeto rosso finto persiano, che lasciava pendere da uno dei fili stesi sulla sua terrazza. «Colpisci forte» mi diceva, e io sorridevo mentre vedevo la polvere smarrirsi nell’aria e sentivo la sua voce provenire da un’altra stanza, intenta a cantare «Forse in amore le rose non si usano più, ma questi fiori sapranno parlarti di me. Rose rosse per te ho comprato stasera...».
E a vedere quel battipanni abbandonato per terra in un angolo della sua casa, che è uno scrigno vuoto, mi si stringe il cuore. Il respiro è pizzicato dal dolore. Questo novembre doveva pur venire con tutte le sue ‘assenze’. Non è come un lunedì che si può evitare. E novembre è la somma di tutti i miei lunedì. Se apro gli occhi tutto finisce, mi dico. Battipanni liberi tutti.

 http://youtu.be/L79AQ38lM1E

Eri tu

Una volta ti dissi: | non arrabbiarti, amore, | s’io sono diversa. | Forse sono una colonna di fumo, | ma la legna che sotto di me arde | è la legna dorata dei boschi, | e tu non hai voluto ascoltarmi. | Guardavi la mia pelle candida | con l’incredulità di un sacerdote, | e volevi affondarvi il coltello | e così la tua vittima è morta | sotto il peso della tua stoltezza, | o malaccorto amore. | Prendevo in giro l’ebrietà della forma e sapevo che ero di lutto, | eppure il lutto mi doleva dentro | con la dolcezza di uno sparviero. | Quante volte fui scoperta e mangiata, | quante volte servii di pasto agli empi; | e anche tu adesso sei empio, o mio corollario di amore. | Dov’è la tua religione | per la mia povera croce?  –– Alda Merini, Una volta ti dissi

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Eri tu e non l’hai capito, pensavi dialogassi col mondo e che le declinazione dei miei vorrei si indirizzassero verso altri corpi. Eri tu e non l’hai capito o hai solo smesso di farlo. Mille passi indietro, anche di più. In giù sino alle viscere del mondo in quel posto dimenticato anche da Dio, dove il mio nome non ha più forza e neppure il tuo. Il telefono non squillerà più, non ti chiamerò più mentre attraverso la città dopo aver finito di lavorare, non ci saranno parole tra noi né vorrei spiegati a voce, non più la tua voce né la mia. Non più. Rinnegherò ogni pensiero di te come fosse una minaccia, come se fossi capace ancora di amarti, come se ci fosse ancora una possibilità… E dell’odore della tua pelle che cosa ne farò? E della sensazione sotto le mie dita? Ho bisogno di confonderle, confondermi. Non conosco altro modo, quello che mi farà più male, ma almeno sarà una strada di non ritorno, per entrambe. Quel mai più che avrà altro odore, altro sapore, altro riflesso sui miei polpastrelli. Quel mai più sotto il quale, per l’ultima volta, ci riuniremo. Eri tu.

http://youtu.be/Z8CW4ArNYac

Volevo dirti che ho fatto ritorno

Linda Borciani
Linda Borciani

Volevo dirti che ho fatto ritorno
E mi sento spessa come il labbro di un tulipano
ampia e rigogliosa come la primavera
che batte le punta delle sue dita impazienti
sul volto di queste piogge tardive.

Volevo dirti che ho guardato i chilometri scorrere
tra le rotaie assenti
lasciare nugoli di polvere dietro la mia figura incompleta,
mentre cercavo di far combaciare il tuo nome al mio
e attraversavo paralleli come gli anelli di un albero
imparando la distanza come un’abitudine
– che ha ripreso a  farci compagnia –

Volevo dirti che il mio corpo caldo e febbricitante
è lì che ancora attende, perché ha accolto la tua preghiera alla pazienza
come pagamento di uno strappo che in parte abbiamo ricucito
Ma le promesse hanno un tempo, così come il peccato
e mi chiedo, perché in tutti quei giorni insieme,
i nostri corpi si siano sfiorati come fossero penitenti,
perché non abbia sentito scoccare la tua lingua
dentro la mia bocca assetata e le tue mani non abbiano preso
ciò che le tue parole continuavano a reclamare.
Sei mia… sei mia… mi dicevi filando i proclami della gelosia
trattenendomi mentre compievo le geometrie della valigia
chiedendomi più tempo per cucirsi addosso.

Volevo dirti che le sento le tue paure
insinuarsi tra le nostre parole
come fossero distorsioni della voce nella cornetta
Credi siano sbagliati adesso questi miei dubbi fasciati ai polsi
mentre il corpo freme in questa assenza confusa?
Perché non hai affondato il tuo morso nella mia carne impaziente?
Perché mi stuzzicavi con i tuoi baci e i tuoi abbracci
per poi, come due adolescenti spaventati
dallo sguardo di un cattolico capezzale,
arretrare?

Volevo dirti che sento freddo mentre ripasso a memoria le tue parole
Quando mi hai detto che era il tuo corpo che rifiutavi, e non il mio.
Ma troppe bugie in questa osmosi di amore
si sono scambiate tra i nostri corpi vuoti
che crederti fino in fondo è davvero difficile

Volevo dirti che ho provato appena, solo per non cadere
che non osavo spingermi oltre i tuoi abbracci spaventata da un rifiuto,

Volevo dirti di inseguire il mio sguardo oltre noi
e guardare come la primavera si succede sui palazzi e tra i vicoli asciutti
come i suoi aliti spingano contro il vetro per incedere con tutti i suoi umori

Volevo dirti che quando sarà estate
l’inverno gelido del tuo amore potrebbe spezzarsi
e allora non rimarrà davvero più nulla.

Copyright © 2013. Tutti i diritti riservati

Sto bene grazie, e tu?

mancanza

«Mi spaventa la mancanza di quella lei che non mi ha mai sfiorato, l’amore mi tiene schiava in una gabbia di lacrime. Mi mastico questa lingua con cui non posso mai parlare. Sento la mancanza di una donna che non è mai nata. Sono anni che bacio una donna che dice non ci incontreremo mai […] una canzone per la mia amata, che sfiori la sua assenza, il battito del suo cuore, le briciole del suo sorriso. […] lei è il giaciglio su cui non mi allungherò mai e la vita non ha senso alla luce di questa perdita […] tagliatemi la lingua, strappatemi i capelli, mozzatemi gli arti, ma lasciatemi l’amore, preferirei aver perduto le gambe, che mi avessero strappato via i denti, cavato gli occhi, piuttosto che aver perduto l’amore. […] l’ora felice in cui la lucidità mi fa visita. Dolce oscurità che mi penetra gli occhi. Io non conosco peccato, questo è il male del diventare grandi, questo bisogno vitale per cui morirei, essere amata. […] una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente» – Sarah Kane, tratto da Psicosi delle 4.48

Apro il file e lo richiudo. Un bianco che è troppo bianco, mi fissa, distolgo lo sguardo in un qualsiasi punto della mia vita che non faccia male. Ho i sensi indolenziti mentre traccio linee da me al resto, pianifico, aggiusto, perdo e ritrovo (mi). Misuro a boccate e passi come se potessi davvero compierli quei programmi che ho in testa, come se potessi davvero far finta di niente. Il tuo nome cerco di non usarlo più tra le filastrocche delle mie giornate, non sempre ci riesco. Anche perché nessuna delle due ha mai deciso tutto questo. Questa volta, non ci siamo dette addio, non abbiamo litigato, pianto, urlato. Questa volta, abbiamo semplicemente smesso di cercarci, come se fossimo un appuntamento andato a male. Scivoliamo via come il sapone che sfugge dalle mani e slitta lungo tutta la superficie della vasca. Non riusciamo ad afferrarci. Abbiamo smesso di provarci. Abbiamo smesso. Semplicemente. Tristemente. Cordialmente però, con una cura che abbiamo perso.

Ehi… Ci scriviamo dopo giorni di silenzio, ci scambiano ‘come va’, ‘sto bene grazie e tu?’, ‘ha nevicato’ e ‘qui c’è il sole’. Poi sgraniamo la lista delle cose da fare e quelle già fatte. Comprare latte, croccantini, salviette struccanti, fare il tagliando alla motocicletta, pagare la luce, controllare il cuore… Ti parlo con dolcezza, quella davvero non è costruita, ma è come se con una mano fermassi il resto filtrandolo dall’amore inquinato, che non riesce a reggere più questa prolungata assenza, che reclama corpo, mani, labbra, saliva, pelle, ossa, sangue, umori. Ci parliamo nella distanza di un addio a fior di labbra. Nessuno delle due osa dirlo. Tu mia Euridice hai passi sempre più assenti, sento la fragilità dello strappo saggiare la mia epidermide consumata. Non devo voltarmi, non devo voltar… Mi preoccupo (e dovrei smettermi) della tua febbre, ti chiedo del cane, se hai mangiato, se guardi il tuo programma preferito, qusnto durerà il tuo viaggio di lavoro a Chicago… e lascio cadere quelle domande che hai ripreso a farmi, che da tempo non facevi più. Mi chiedi di leggere le cose che ho scritto, lascia che gli dia un’occhiata mi dici mentre smetti i panni di manager frenetica e altezzosa. E mi chiami amore. Traccio con le dita le tue note ai margini del capitolo del libro che devo inviare all’editore. Apri frammenti di tempo in cui ritrovarci, tessi filastrocche e storie per me, mi suoni qualcosa al piano e la tua voce roca mi percorre tutta come la prima volta. Se chiudo gli occhi vedo il mio corpo schiacciato sul pavimento di casa tua sotto il peso di quel divorarci pelle a pelle. La prima volta. La prima volta con il tuo sapore in bocca, i tuoi graffi come marchi che dicevano sei mia qui e qui e qui e ancora qui. Solo mia. Ero. Solo mia. Eri. Di notte il telefono squilla e mi chiedi di leggerti le poesie che sto leggendo, di mostrarti le foto che ho scattato. Continui a chiedermi, inseguirmi, ma non riesci ad ammetterlo (a te stessa prima di ogni altra cosa). Lo senti anche tu vero? Scivolo via. E io, io beh non riesco a crederti. Ti rispondo ‘sì sto bene‘, sì tutto bene, e sorrido anche se non mi vedi stretta nell’inganno che ci tiene a galla, sorrido mentre spingo sul tuo petto l’estraneità in cui piano sprofondiamo (riesci ad afferrare la mia mano?). Accenno solo frasi a metà ‘sono stati giorni un po’ difficili‘, ti dico, senza dire che è stato davvero difficile: i problemi in famiglia, mio padre in ospedale, l’operazione di mio nonno, le continue corse in un lavoro che poi non dà quanto deve. Non ti dico che è difficile alzarsi la mattina e trascinarsi fuori. Non ti dico quanto abbia bruciato la tua assenza quando ricevendo quei premi tu non eri lì a cogliermi. Ricordi il mio rossetto rosso e lo sguardo assente? La foto che ti ho inviato poco prima di salire sul palco. È un premio importante devi essere fiera di te stessa, mi hai detto a chilometri di distanza. Ci sarò la prossima volta. Ma poi la storia si è ripetuta, sguardi compiaciuti fasciati al mio corpo, sorrisi di circostanza (i miei) mentre registro la tua assenza.

Dove siamo? so che non ami sentirlo. Mi digerisci, ma non vuoi ammetterlo. Ed è così difficile inventare sempre una scusa plausibile per dire ‘no’ agli amici; gestire quei girotondo nevrotici in cui continuamente chiedersi da dove cominciare per stare meglio. Stai male anche tu, lo so, ed è forse questo il punto, ci trasciniamo in fondo senza che nessuna delle due riesca mai a essere sostegno per l’altra.

Punta a punta, respingenti. Uno strappo lento e stanco, che ormai la stretta afferra i polsi al vuoto. Le nostre voci hanno lasciato spazio ai cinguettii del telefono, dopo che i corpi si sono dimenticati (la tua saliva, il tuo sapore, le mie mani nella tua carne…) e il tocco si è avvizzito nelle sospensioni di un letto vuoto e desideri soffocati a morsi sul cuscino. I secondi sono diventati minuti, i minuti giorni e poi settimane. Ci sono gli occhi di altre donne, le loro lusinghe, mi raggiungono, le allontano. E fa male. Quella notte, in cui ho affondato lo sguardo nello specchietto dell’auto, il trucco disfatto da baci ebbri e affamati scambiati con uno sconosciuto. Se Luca non mi avesse tirata via da quella me avvilita per la tua assenza. Che cazzo stai combinando? dalla sua bocca è come se fosse uscita la mia voce. Ero io stessa a rivolgermi quella domanda. Ti ho detto tutto, quella stessa notte, in bilico su me stessa. Appoggiata sul pavimento, il buio piano si smarriva nell’alba che filtrava dai denti stretti della serranda, la camicia con ancora l’impronta di quell’uomo, i piedi doloranti, le mani che sfilavano via i tacchi e il telefono che squillava per rompersi nella tua voce e nelle mie lacrime. Ti ho detto che smettevo di essere tua, punivo me stessa dicendoti la verità. Ad accogliermi fu un lungo silenzio, il tuo respiro sottile, un singhiozzo e poi un perdono che ci spezzò comunque. Coniugavamo un mai e stabilivamo le regole.

Iniziai ad allontanarmi consapevole che nessuna delle due meritasse quel perdono. Dovevo recuperare me stessa. Devo. Ho preso decisioni, ho sentito quell’energia che da tanto mi manca, ho pensato che fosse, dunque, la decisione giusta. E forse lo è davvero. Forse è questo che fa davvero male, questo imporsi di non chiamarti, di non cercarti e rispondere alle tue domande senza traboccare.

È tutto così eccessivo, lo è sempre stato tra di noi. Quella notte in cui mi chiamasti delirante di febbre fosti così dolce a scioglierti in un pianto che declinava il mio nome in voglie che da tempo non mi facevano sentire più tua. Ma poi, poco prima di addormentarti, hai detto anche altro. Mi spaventa amarti, hai biascicato prima di addormentarti. Sono rimasta al telefono, ti ho ascoltata dormire a lungo (come spesso accade) mentre ripassavo nella lingua le tue ultime parole. Mi accorgo di essere tiepida appendice, che il tuo concetto di amore e interezza è stabile in te e profondamente radicato, c’è poco spazio per il noi. Potremmo dunque continuare ad amarci così, e smettere di amarci così. Potrei scrivere questo in quel foglio bianco che assilla queste parole a metà che si spengono nella gola, questi pensieri abortiti. In qualche maniera devo dirtelo perché non so se il merito sia tuo: in questa debolezza che mi trascina c’è una sottile ribellione, la voglia di riprendere in mano le cose, di riprendermi e forse conoscermi per la prima volta. La cosa che più mi spaventa, però, è che mi porti definitivamente lontano da te.

http://youtu.be/rK_Q1sxoDuQ

d’amaroamore

E quando divento difficile, con paure strette e pensieri confusi, tu smetti di conoscermi, mi chiudi in una scatola e vai via. Scegli te stessa, arretrando in fretta dinanzi alla mia forma distorta dal dolore.
L’amore ha parole così diverse da quelle che ama raccontare, così che ho vergogna di desiderare.

nodo

Una volta ti dissi

Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,
o malaccorto amore.
Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Dov’è la tua religione
per la mia povera croce?

– Alda Merini