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Arrivo tardi (e infinite sono le resurrezioni)

«Nel mio Smarrimento/ pongo la domanda estrema/ Può chi ha smesso di essere/ Avere avuto mai esistenza/ Non più un tu come mittente/ non c’è destinatario/ con cui poter scherzare sulla realtà defunta/ Può chi è ancora/ essere inesistente?/ Sono diventata Cieca/ nel rispondere/ al tuo morto linguaggio d’amore».
Mina Loy

Arrivo tardi anche alla mia festa di addio
è una sorta di funerale storto
in cui sono l’unica invitata

Avete presente quelle celebrazioni sontuose
con feretro al centro in cui
una corda delimita lo spazio
del corpo morente (?)
è ridicola – non trovate – l’ostentazione della distanza
come se la morte ne conoscesse e facesse disparità
Abbandonando la sua livella in un angolo

in attesa che il ragnetto venga fotografato
e gli applausi si esaudiscano
e i cavalli si inchinino
e le bandiere ferme in apnee a mezz’asta
riprendano la risalita

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dall’altra parte dello specchio

scena-dal-film-lo-specchio-di Tarkovskyjhttps://youtu.be/TIXgpzefXvU

Dei nostri incontri
ogni istante festeggiavamo
come un’epifania,
soli nell’universo tutto.
Più ardita e lieve d’un battito d’ali
per le scale correvi
come un capogiro,
precedendomi tra cortine di umido lillà
nel tuo regno dall’altra parte dello specchio.
Quando la notte venne ebbi da te la grazia. Continua a leggere dall’altra parte dello specchio

Possa il mio abbandono raggiungerti

“Sono innamorata dello smettere. A suo modo è un’arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull’albero: crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche.” – Un segno invisibile e mio, Aimee Bender

Caviardage Adorara Creatura

Sono altrove mi dicesti una volta. Sono qui, ti dico adesso. Il segno invisibile e mio. Solo mio. Maledetta te, che infesti i miei sogni. Come un rigurgito ritorni e spingi le tue dita, lunghe e pesanti, dritte in gola (amavo portarmi la tua mano sul viso e chiudere gli occhi. Respirando a boccate strette per poi morire in un sussurro: la tua carezza mi acquieta). E recuperi ogni dimenticata memoria. La tiri fuori con una violenza inaudita, come quella che ci scambiavamo durante ogni litigio. Ho la lingua indolenzita, e non saprei dirti che sapore ha tutto questo. A riportarti a me è stata una canzone. Come lo stupido rituale che si scambiano gli adolescenti. Proprio qualche giorno fa mia nipote mi ha detto di ascoltarla. É arrivata dritta, con tutta te. Continua a leggere Possa il mio abbandono raggiungerti

Chiedi perdono

Sotto un lampione fumoso, mi trovavo faccia a faccia con la mia amata a tormentare con le dita i bottoncini a rombo della sua camicia immacolata. Alta com’è le è venuto naturale mettermi le mani sui fianchi e attirarmi a sé. E, audace come sono, ho messo la bocca sulla sua e questa volta sono entrata e le ho detto tutte le cose che morivo dalla voglia di dirle. Scura e dolce, l’elisir dell’amore nella sua bocca. Più bevo, più ricordo tutto quello che non abbiamo mai fatto. Ero un fantasma finché non ti ho toccata. Non ho mai ingoiato cibo mortale finché non ti ho assaggiata, non ho mai capito il linguaggio parlato finché non ho trovato la tua lingua. Ho camminato nel sonno, triste sonnambula, mani tese per colpire l’oggetto solido che finalmente avrebbe potuto destarmi alla vita. L’unica cosa che abbia mai fatto è stare sotto questo lampione, contro il tuo corpo, mi manchi da tutta la vita. – Chiedi Perdono, Anne-Marie MacDonald, 1996

Prima che tu dica pronto

A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?
Italo Calvino – Prima che tu dica pronto, da ‘Gli amori difficili’

E’ difficile, lo ammetto, scrivere come io mi senta, nonostante il sole che impaziente bussa alla finestra, lo scalciare del cane che sogna accanto ai miei piedi, e il tuo nome in bilico sulla bocca umida del ricordo della tua saliva. Non ho passi né pelle che si riscaldi a quel contatto. Continua a leggere Prima che tu dica pronto

Visualizzato il 4 novembre. Ultima lettera a una sconosciuta

«Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. […] Io sono la periferia di una città esistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione». – Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares

Mi scrisse per caso una giornata di maggio di due anni fa, dopo avere visto una galleria di miei scatti fotografici: budelli cittadini fatti di vicoli dimenticati, scalinate spizzicate e volti consumati con mani nodose e segni profondi sulla pelle. Mi ringraziò per quella città, la sua, la mia, traiettoria lontana dalla nuova quotidianità. In qualche inconsapevole maniera le restituivo quegli odori, mi disse. Come una conchiglia, pensai. Fu così che iniziammo a scriverci. E lei iniziò a raccontarmi della sua nostalgia e di pezzi di infanzia: spingendo con polpastrelli consumati su una vecchia foto di famiglia.
Non è la prima volta che capita. E’ già successo in passato di carteggi con sconosciute (solo due uomini), ed è una cosa spessa come il labbro di un tulipano. Come una seduta gratuita dall’analista. Forse non proprio il tuo. Come se fossi il centro, la virgola e il punto. E’ bello, ammettiamolo, scrivere a qualcuno che non sa molto di te e lasciare la libera associazione dei pensieri prendere il sopravvento: senza giudizio, senza corpo, senza sesso né, talvolta, senso. E’ bello lasciarsi asciugare su un foglio e spedirlo, come fosse una lettera imbucata in una di quelle vecchie e dimenticate scatole rosse sul ciglio della strada. E’ bello aspettare il ritorno di quelle parole, e una risposta che non è mai tale perché è un racconto che non risponde né chiede, ma che ti mostra un pezzetto di vita: quello di una donna lontana dal tuo tempo, dal tuo spazio. Qualcuno che a un certo punto della tua giornata irrompe nella stanza, sposta la sedia, si accomoda senza invito né invadenza, ti guarda e inizia a parlarti. Smetti di fare ciò che devi e vai altrove. Un altrove sconosciuto che inizi a immaginare. Accade e basta. E non c’è nessun galateo che ti impone quando e come rispondere: non c’è il registro del tempo, non c’è il devi e puoi. C’è l’addio che non è mai definitivamente doloroso, perché non è mai un vero addio, è il punto su un rigo. Perché non c’erano promesse, né aspettative. C’era quel tempo delle parole come un the delle cinque che potrai prendere con qualcun altro. Terribile? No, sincero. E’ come se scrivessi a te stesso, senza l’incombenza di doverti dare delle spiegazioni. Non ci sono risposte, non ci sono domande.
Vi è mai capitato?


4 novembre 2013 alle ore 21.43

Un anno e un mese da quando mi hai scritto l’ultima volta. Me ne accorgo adesso. Dovrei dirti che mi dispiace di non averti risposto (ed è così), ma il racconto delle dinamiche che hanno sospeso questa risposta per oltre un anno non credo cambierebbe le cose, non credo ti importerebbe (questa parte la cancellerò). La terzultima frase della tua lettera dice «mentre voi litigate con il caldo che si ostina a non finire». Le temperature si sono abbassate, un sottovoce gelato che mi trascina sino alla finestra. La richiudo con troppa forza, come se spingessi un rifiuto molesto sulla pancia di qualcuno. Il cane alla mia destra dorme avvolta su se stessa, accertandosi, di tanto in tanto, che io sia ancora a una spanna da lei. Convinta che la possa davvero difendere (e poi chissà da quale minaccia).
I pensieri sgorgano a fiotti da una ferita pronunciata sulla mano, ma non riesco a individuarla. Una conversazione veloce con un’amica, ed eccomi ieri sera a ripensare, tra quei girotondi di parole, a quelle scambiate tra noi, così senza resistenze né aspettative, come se vi fosse un tempo pregresso, come se fosse normale, in un ‘tu’ che non ci siamo mai scambiate: non un nome, né un saluto, né un tempo o una direzione. Come se fossero dirette più che a noi alle nostre ombre allungate sulla parete. Spero queste non siano adesso inopportune, così le fermo, perché potrei continuare forse per troppe righe ancora, infilando nella buca un’indigestione di parole. Le chiudo, come ho spesso visto fare in ospedale con le flebo, quando gocciolavano cure troppo velocemente. Finché la goccia cadrà lentamente sino a spegnersi. Lascio allora quella domanda (sul potere o non potere), una di quelle a cui non abbiamo mai risposto, partendo sempre da tutt’altro punto, come se queste parole le rivolgessimo a noi stesse.

[visualizzato il 4 novembre 2013 alle ore 21.57]

Questione di punteggiatura

Una libertà oscena, gioiosa, nuda, che nella sua fantasia si ergeva come un’immensa cattedrale spaziosa, magari in rovina, magari scoperchiata, spalancata verso la volta del cielo, nella quale lui e lei sarebbero ascesi in assenza di peso verso un poderoso abbraccio per perdersi, per annegare in ondate di purissima estasi dimentiche di tutto. Era talmente semplice! Come mai non vi si trovavano già, e invece stavano ancora seduti lì, intrappolati da tutte le cose che non sapevano dire, o che non osavano fare? – Ian McEwan, Chesil Beach

Coffee e thoughts

E chiudi quella dannata finestra. Mi urla qualcuno dal fondo della stanza. E’ un residuo di me che si ribella al rumore. Ho una certa rigidità alle dita oggi che mi infastidisce. Il tempo è umido e freddo e si appiccica alle parole. Faccio fatica a scrollarmele di dosso, fanno girotondo, ‘giro intorno al mondo‘. Scansano gli impegni in agenda e mi trascinano altrove, ma non ho tempo. Mi dicono: il tempo non esiste. Se morissi domani, dopotutto – continuano a dirmi -, dovresti cessare di far tutto, e quello che ti sembrava improrogabile non lo sarebbe più. Cesserebbe. Così quella sensazione che niente possa essere rimandato. Quella sensazione che ti schiaccia e avvilisce. Dopotutto. Mi interrogo sulla punteggiatura e risalgo la china, sino all’ultima la parola, che è anche la prima. Mi chiedo se sia stata messa in maniera corretta, e ripenso a McEwan. Fottutamente bravo, mi dico. La mia punteggiatura non mi convince. Dovrei aprire la finestra e lasciare che spifferi di aria fredda si intrufolino nella stanza, credo possano essere un buon deterrente alle divagazioni, che stamattina non lasciano molto spazio ad altro. Dovrei prendere righello e matita e tracciare di nuovo le linee, appuntare a margine del foglio annotazioni valide, progetti, progettualità e pianificare la mia vita, crollata come un castello di carte. Ti sei presa una lunga pausa, lei mi ha detto. Era inevitabile, ha aggiunto. Non tutti possono prendersi delle lunghe pause come hai fatto tu, biascica ancora come se io non lo sapessi, come se  non sapesse che quella lunga pausa [Io] l’ho presa per lei. Mastica parole che parlano di me, come se non le interessasse. Una punteggiatura sbagliata cambia il senso della frase. E penso alle pause.

Metto due punti, aggiungo qualche virgola e vado a capo. I punti poi vedremo dove metterli.

[Digressione] Com’era quella storiella? «Vado a mangiare nonna» – «Vado a mangiare, nonna». Un articolo su l’arte della punteggiatura, pubblicato su Avvenire. E la virgola salvò la vita a una nonnina.
Una virgola tra me e il resto salverà la mia? Almeno oggi.

http://youtu.be/mRStN5hOqQ4

Così, per caso

Autumn Leaf - Foglie autunnali

Ho davanti la via isoscele | della sera. | Già ieri, innamorato, | supplicava: “Non dimenticarmi”. | E adesso solamente i venti e i gridi dei pastori | e i cedri agitati | sopra fresche fontane.  – Anna Achmatova, Distacco

E alla fine sei andata via, come una folata di vento in mezzo all’autunno. Nessuna foglia si è alzata, nemmeno la più vecchia. Tutto mi è sembrato surreale, questa strana sensazione di nulla. È quello che è accaduto, oggi, adesso. In una giornata che non ha nome. Lo sguardo è scivolato sul dorso di lettere postate sul web e mi sono sembrate distanti e slabbrate, come fossero confessioni estorte dal dolore. Continua a leggere Così, per caso

La vicina della porta acanto

«Siccome respiriamo tutti, tutto il tempo, è sbalorditivo quando qualcuno ti indica come e quando devi respirare. E con quale chiarezza uno totalmente privo di immaginazione veda una certa cosa se gli dicono che ce l’ha davanti, corredata di ringhiera e guide di gomma, che curva a destra sul fondo inoltrandosi in un’oscurità che si ritrae davanti a te. Non è come dormire. Né la sua voce si modifica o sembra ritirarsi. Lei è lì, parla con calma, e anche tu.»  – Il re pallido, David Forrest Wallace

panni stesi ad asciugare

L’acanto pensavo fosse un colore. Ho dimenticato le lezioni di arte e architettura, sarà per colpa dell’accento estremamente forte della mia insegnante, come un alito pieno di odori disgustosi. Eppure era una donnina così insignificante e innocua, con i suoi capelli rosso sbiadito e colori troppo accesi su occhi piegati dall’età. Sarà stata alta unmetroecinquantascarsi. Sarà stata. Chissà se insegna ancora, in quel vecchio e austero liceo nel centro storico della mia città, con una bandiera italiana consumata che ogni tanto una folata di vento rianimava. Mi sedevo sulla grande base di marmo di quella finestra che si affacciava sul mercato, e disegnavo i profili delle vecchie case con panni colorati, stesi su corde d’attracco da un palazzo all’altro. Talvolta scorgevi anche diverse paia di scarpe appese penzoloni. Qualcuno però  mi disse che fosse un particolare codice per segnalare spacciatori nella zona. Non ho mai saputo se si trattasse di una delle tante leggende metropolitane. Fantasiose spiegazioni a cose che nessuno avrebbe mai notato.

Oltre quelle file di scarpe e poveri panni, di etnie differenti, scorgevo quella cupola meravigliosa, con verdi smeraldo blu grigi e sfumature dorate che ti indicavano il pennone. Poi, a sua volta, ti invitava a tornare sulle possenti statue di marmo, che come dei titani sostenevano il peso della cupola. Ecco, se l’acanto fosse il colore sarebbe quell’insieme di sfumature di verde smeraldo, blu e dorato. Sarà forse proprio quell’intrecciarsi di forme nodose e corpulente avvinghiate a capitelli e colonne ad avermi ispirato, ad avermi confusa. Così che quella foglia ornamentale si sia scomposta gocciolando colore.

La mia vicina mi precede stamattina, conquista lo spazio davanti l’ascensore e tradisce un sorriso dal rossetto sbavato. Ha capelli esageratamente cotonati, come se qualcuno le avesse gonfiato un palloncino nascosto sotto la zazzera dorata. Troppe gocce di profumo, dolce e nauseabondo che mi costringono ad arretrare. Uno, due, tre… facciamo quattro passi indietro. Sono proprio dietro di lei e la osservo mentre aspettiamo l’arrivo dell’ascensore. E’ occupato. Dà qualche colpo sulla porta in metallo per far fretta a chi temporeggia qualche piano più sotto. Ha dita ingioiellate su mani da sessantenne trascurata.  Potrebbe averne anche un centinaio di anni. Dalla sua mano tesa scivolo giù sino al suo braccio, il gomito, la spalla, il collo raggrinzito e poi il vestito. Un abito che le stringe sui fianchi con un motivo floreale dalle sgargianti tonalità blu e verde smeraldo. Chiudo gli occhi e ricordo le mie ginocchia raccolte, l’album da disegno e il carboncino che mi macchiava i polpastrelli. Il sole stamattina fende ogni intimità, entra prepotente anche su quel pianerottolo di eccessi e banalità. Compie uno strano gioco di luci, con traiettorie che dal pavimento muovono ombre e riflessi. Così per un attimo sorrido proprio dietro le spalle della mia vicina scorgendo il suo abito con quelle grosse foglie riflettersi sulla sua porta di casa, uno specchio semi opaco di mogano. La mia vicina della porta acanto, sorrido mentre costruisco il pensiero e la lascio entrare per prima dentro l’ascensore con ilare irriverenza.

http://youtu.be/vyjNCFje8bc

Sulla strada [le luci della città]

Sulla strada

A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione – Jack Kerouac, Sulla strada

Le finestre di notte hanno frasi strette sulle labbra. Torno verso casa, è tardissimo, l’orologio dell’auto segna le 3.14 del mattino. La strada non è del tutto vuota. Al terzo piano di un palazzo anni ’70, con tracce visibili di tempo sul volto, tutte le stanze sono illuminate. Non si vedono ombre dietro le tende bianche con arabeschi al centro. Rallento piano con l’auto e mi sporgo a guardare dentro il portone di ingresso dell’edificio, convinta di trovare il registro delle visite per la veglia funebre, qualche corona di fiori sul pavimento e forse un parente o un amico pronto per l’ultimo saluto. Avrei potuto anche sentirgli i pensieri mentre attendeva l’ascensore e con lo sguardo basso passava a rassegna le parole da dire. “Condoglianze…”, “E’ una grave perdita…”, “Come faremo, come faremo…”, “Non immaginavo…”, “Ma stava così bene…”, “E’ meglio così, soffriva troppo, non era più vita…”, “Oddio… oddio”… Silenzio, semplicemente silenzio. Era un uomo o una donna? Un adulto o un bambino? Era.

Il portone è vuoto però, non c’è nessuna traccia di morte o dolore. La luce sul soffitto è accesa, qualcuno sarà passato da lì, ma non un amico dolente né un parente in ‘visita di dovere’. Alzo lo sguardo un’ultima volta e vedo le quattro finestre illuminate, e ancora nessuna ombra a suggerire vita. Sono le 3.30 del mattino, il display arancio dell’auto ammonisce le mie distrazioni. Do il mio ultimo saluto a questa curiosità così funerea che si trasforma in ricordi miei, solo miei, neppure tanto lontani. Ed è già troppo tardi quando tento di cacciarli e distrarmi, perché hanno permeato l’epidermide. Scuoto, ho brividi dappertutto e una sottile paura che mi avvolge i sensi. Premo sull’acceleratore gettando uno sguardo all’incrocio che ho appena tagliato a metà come una mela che rotola via. E ti ricordo mentre l’affettavi e me ne porgevi qualche fetta, io poi prendevo i piccoli semini neri, me li portavo alla bocca e li aprivo con perfezione chirurgica, mangiandoli. Il gusto acidulo sulle labbra. «Smettila di mangiare quei semi che ti fanno male. Sono pericolosi…», mi dicevi ogni volta indispettita. Non ti ho mai creduta, anche se poi in realtà scoprii che avevi ragione, non certo quelle piccole dosi di amarezza avrebbero potuto uccidermi, ma una quantità nettamente superiore: “i semi di mela – c’era scritto su un sito – sono ricchi di amigdalina: gli enzimi della flora batterica degradano la sostanza in composti tossici tra cui, appunto, acido cianidrico. La loro ingestione può provocare intossicazione e avvelenamento di varia entità, sino alla morte”. Sorrido con lentezza e una dolcezza che fa male, mentre penso alla tua voce che a stento ricordo. Guardo la luna rotonda e bellissima. Potrei morire stanotte e sarebbe una notte qualunque, penso.

Attraverso la città e passo a rassegna le insegne pubblicitarie masticate dall’abbandono. Qui, mi dico, c’era una pasticceria molto buona, adesso rimane solo quest’albero di metallo senza insegna e nella vetrina ci sono esposti caschi per moto, bottiglie di olio e lubrificante, e qualche avviso alla clientela: “Offerta tergicristalli”. Svolto l’angolo e noto una Smart rosa confetto con grossi adesivi di Hello Kitty sulle portiere, penso che questa città abbia perso il suo buongusto da tempo ormai. Prendo la strada più lunga, perché i pensieri hanno traiettorie che necessitano di più tempo. Ho sonno e sento gli occhi pesanti, anche se scarseggia in me la voglia di tornare a casa.

Sul selciato ci sono ancora tracce delle linee gialle che delimitavano il posto invalidi che ormai è stato dismesso, dopo la morte dell’anziano signore che ne usufruiva. Posteggio a marcia indietro, e mentre chiudo la portiera dell’auto il rumore riecheggia nel quartiere vuoto. Sorrido, di pensieri così funesti. Sorrido di me e di tutto quello che la mia mente ha partorito. Che razza di pensieri sono questi prima di andare a letto? La chiave gira un paio di volte nella toppa, mi guardo alle spalle come se ci fosse qualcuno pronto a spiarmi. Lascio fuori quella me che stanotte ha giocato con i morti. Getto ogni cosa sul primo ripiano disponibile e mi svesto con distrazione. Mi seggo sul pavimento che ha tutta l’estate sul dorso e brucia, il cane mi lecca il volto, iniziamo a giocare, mentre fuori il tempo fa il suo dovere e l’alba chiede parola.

http://youtu.be/b08ObModLK4