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Bianca. Il mio primo bacio

Il primo bacio lo diedi a una bambina
Appoggiata al lavello bianco del bagno

Bianco come il riflesso del sole su mattonelle a quadrati e fughe
Bianco come il sapone che strofinava veloce sulla sua bocca

– Chissà perché bambina strofini con forza la tua bocca di ciliegie appena mature –
– Quale sospirato peccato nascondi?

Bianca
Come le bolle
Come la schiuma nella sua bocca di ciliegie appena mature
Come il suo nome

Un bacio bianco

Come
il sapone
i quadrati di mattonelle
il sole riflesso nel mio sguardo appena nato

Bianco come il bacio
che due bambine sanno scambiarsi

Telleena, 2022

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immagine in copertina: Piero Manzoni Achrome, 1958 – caolino e tela grinzata. Collezione Intesa Sanpaolo

L’uomo sul tetto che scotta

L'uomo sul tetto che scotta

«E questo mi ha insegnato che non si può avere niente, non si può avere assolutamente niente. Perché il desiderio inganna.È come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e illumina un oggetto insignificante, e noi poveri sciocchi cerchiamo di afferrarlo: ma quando lo afferriamo il sole si sposta su qualcos’altro e la parte insignificante resta, ma lo splendore che l’ha resa desiderabile è scomparso» – Belli e dannati, Francis Scott Fitzgerald

[Lettera a una sconosciuta ri-tornata]
Troppo tempo. Un tempo che ha secoli dentro, perché ha un’altra me in ostaggio. Tu in qualche modo potevi ricordarmela. Ricordare una parte di me dolorosa che ho messo nel cassetto, chiusa a chiave. Il tuo legame con [la sua città].

Ecco. Se fossi al centro di questa stanza adesso, capiresti. Qui proprio dove sto io. Se indossassi i miei passi stanti, e il Continua a leggere L’uomo sul tetto che scotta

Sleeping with ghosts

Scolapasta

Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lasciò sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.
– Mark Strand

Attraverso la strada, curve e strade malmesse, c’è solo qualche spazzino indolente a condividere lo sbadiglio della città. I colori del mattino si spezzano sul parabrezza della mia automobile che non ha fretta, come i miei pensieri dopotutto. «Prego passi», faccio il segno con la mano dentro il mio abitacolo pieno di musica. L’automobilista ha fretta, non rispetta lo stop e ignora la gentilezza fagocitando anche il mio tempo, che è ancora in gestazione. Continua a leggere Sleeping with ghosts

Se solo non fossi un ‘ma’

Foglie - LeafNon chiedermi dove, né quando. Non chiedermi come, so solo il perché, e questo continua a bastarmi (nonostante tutto) …

http://youtu.be/T9zQcm7Dt5s

La vicina della porta acanto

«Siccome respiriamo tutti, tutto il tempo, è sbalorditivo quando qualcuno ti indica come e quando devi respirare. E con quale chiarezza uno totalmente privo di immaginazione veda una certa cosa se gli dicono che ce l’ha davanti, corredata di ringhiera e guide di gomma, che curva a destra sul fondo inoltrandosi in un’oscurità che si ritrae davanti a te. Non è come dormire. Né la sua voce si modifica o sembra ritirarsi. Lei è lì, parla con calma, e anche tu.»  – Il re pallido, David Forrest Wallace

panni stesi ad asciugare

L’acanto pensavo fosse un colore. Ho dimenticato le lezioni di arte e architettura, sarà per colpa dell’accento estremamente forte della mia insegnante, come un alito pieno di odori disgustosi. Eppure era una donnina così insignificante e innocua, con i suoi capelli rosso sbiadito e colori troppo accesi su occhi piegati dall’età. Sarà stata alta unmetroecinquantascarsi. Sarà stata. Chissà se insegna ancora, in quel vecchio e austero liceo nel centro storico della mia città, con una bandiera italiana consumata che ogni tanto una folata di vento rianimava. Mi sedevo sulla grande base di marmo di quella finestra che si affacciava sul mercato, e disegnavo i profili delle vecchie case con panni colorati, stesi su corde d’attracco da un palazzo all’altro. Talvolta scorgevi anche diverse paia di scarpe appese penzoloni. Qualcuno però  mi disse che fosse un particolare codice per segnalare spacciatori nella zona. Non ho mai saputo se si trattasse di una delle tante leggende metropolitane. Fantasiose spiegazioni a cose che nessuno avrebbe mai notato.

Oltre quelle file di scarpe e poveri panni, di etnie differenti, scorgevo quella cupola meravigliosa, con verdi smeraldo blu grigi e sfumature dorate che ti indicavano il pennone. Poi, a sua volta, ti invitava a tornare sulle possenti statue di marmo, che come dei titani sostenevano il peso della cupola. Ecco, se l’acanto fosse il colore sarebbe quell’insieme di sfumature di verde smeraldo, blu e dorato. Sarà forse proprio quell’intrecciarsi di forme nodose e corpulente avvinghiate a capitelli e colonne ad avermi ispirato, ad avermi confusa. Così che quella foglia ornamentale si sia scomposta gocciolando colore.

La mia vicina mi precede stamattina, conquista lo spazio davanti l’ascensore e tradisce un sorriso dal rossetto sbavato. Ha capelli esageratamente cotonati, come se qualcuno le avesse gonfiato un palloncino nascosto sotto la zazzera dorata. Troppe gocce di profumo, dolce e nauseabondo che mi costringono ad arretrare. Uno, due, tre… facciamo quattro passi indietro. Sono proprio dietro di lei e la osservo mentre aspettiamo l’arrivo dell’ascensore. E’ occupato. Dà qualche colpo sulla porta in metallo per far fretta a chi temporeggia qualche piano più sotto. Ha dita ingioiellate su mani da sessantenne trascurata.  Potrebbe averne anche un centinaio di anni. Dalla sua mano tesa scivolo giù sino al suo braccio, il gomito, la spalla, il collo raggrinzito e poi il vestito. Un abito che le stringe sui fianchi con un motivo floreale dalle sgargianti tonalità blu e verde smeraldo. Chiudo gli occhi e ricordo le mie ginocchia raccolte, l’album da disegno e il carboncino che mi macchiava i polpastrelli. Il sole stamattina fende ogni intimità, entra prepotente anche su quel pianerottolo di eccessi e banalità. Compie uno strano gioco di luci, con traiettorie che dal pavimento muovono ombre e riflessi. Così per un attimo sorrido proprio dietro le spalle della mia vicina scorgendo il suo abito con quelle grosse foglie riflettersi sulla sua porta di casa, uno specchio semi opaco di mogano. La mia vicina della porta acanto, sorrido mentre costruisco il pensiero e la lascio entrare per prima dentro l’ascensore con ilare irriverenza.

http://youtu.be/vyjNCFje8bc

Un happy ending

ph. Lynn Johnson
ph. Lynn Johnson

«Ogni momento accade due volte: all’interno e all’esterno, e sono due storie diverse» – Zadie Smith

Un happy ending tutti lo vorrebbero. Non prendiamoci in giro. Mi volto e guardo oltre la finestra spalancata, la feritoia rossa di una tenda a mezz’asta. Sento rumori assordanti provenire dalla strada e mescolarsi alla musica. Solo piano. Il cellulare lampeggia mille parole e più di disordinati messaggeri. Non ho molta voglia di rispondere, e digitare sui piccoli tasti touch screen mi innervosisce. Mi innervosisce anche questa stretta allo stomaco che sembra più lo scolo di un rubinetto rotto. Potrei chiudere gli occhi e immaginare il silenzio. Qualche anno fa seguii un corso di yoga dove ti insegnavano a respirare, a immaginarti punti colorati sopra la testa, a trascendere perché tu sei il microcosmo nel macrocosmo, e cose del genere. Mi insegnarono a respirare e sentii le mie branchie irrigidite quasi spezzarsi. «Immaginate il dolore come una lunga linea a cui abbandonarsi». E io chiudevo gli occhi e mi abbandonavo a quella linea di dolore, mentre china sul cesso stavo male per quegli spasmi che mi spezzavano in due e che in qualche modo, scoprii anni dopo, erano collegati alla piccola noce che mi cresceva nel cervello. Non fu un periodo granché bello. Lei ha un tumore signorina, e così via. «Potrebbe non potrebbe…». Decisi, in qualche modo, di stare ferma. Ora questa è una verità a cui mi piacerebbe mescolare finzione, per allontanarmi da questo pensiero matriosca che potrebbe inghiottirmi. Oggi non è la giornata adatta per farmi fagocitare. Oggi voglio un happy ending, che suoni come il mio inglese spizzicato e impreciso (lei me lo ha ripetuto sino allo sfinimento). Chiudo in un pugno i pensieri e li getto da qualche parte (anche questo me lo ha insegnato qualcuno). Il muso del mio cane al sole mi intenerisce, dorme e sogna, muovendo le zampe in un prato che sta immaginando. I cani hanno un’anima? Anche su questo gli esperti si spaccano, come se ogni cosa dovesse essere per forza discussa, approvata, sviscerata. Come se ogni cosa dovesse avere una spiegazione, e perché no, il suo happy ending. I cani, allora, hanno un’anima, e ci aspettano quando muoiono davanti all’enorme cancello di oro zecchino, e scodinzolano quando scorgono il nostro passo immortale avvicinarsi, e leccano la nostra cazzo di faccia ectoplasmatica. Non hanno bisogno di guinzagli né di museruole, e saremo capaci di discutere perché parleranno, o forse parleremo noi la loro lingua. Così staremo lì accovacciati in un angolo di paradiso a raccontarci di questa o quella volta, e dirci tutto quello che non eravamo mai stati in grado di dirci… Il mio happy ending.

http://youtu.be/-uZlvKXnYU4

Sulla strada [le luci della città]

Sulla strada

A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione – Jack Kerouac, Sulla strada

Le finestre di notte hanno frasi strette sulle labbra. Torno verso casa, è tardissimo, l’orologio dell’auto segna le 3.14 del mattino. La strada non è del tutto vuota. Al terzo piano di un palazzo anni ’70, con tracce visibili di tempo sul volto, tutte le stanze sono illuminate. Non si vedono ombre dietro le tende bianche con arabeschi al centro. Rallento piano con l’auto e mi sporgo a guardare dentro il portone di ingresso dell’edificio, convinta di trovare il registro delle visite per la veglia funebre, qualche corona di fiori sul pavimento e forse un parente o un amico pronto per l’ultimo saluto. Avrei potuto anche sentirgli i pensieri mentre attendeva l’ascensore e con lo sguardo basso passava a rassegna le parole da dire. “Condoglianze…”, “E’ una grave perdita…”, “Come faremo, come faremo…”, “Non immaginavo…”, “Ma stava così bene…”, “E’ meglio così, soffriva troppo, non era più vita…”, “Oddio… oddio”… Silenzio, semplicemente silenzio. Era un uomo o una donna? Un adulto o un bambino? Era.

Il portone è vuoto però, non c’è nessuna traccia di morte o dolore. La luce sul soffitto è accesa, qualcuno sarà passato da lì, ma non un amico dolente né un parente in ‘visita di dovere’. Alzo lo sguardo un’ultima volta e vedo le quattro finestre illuminate, e ancora nessuna ombra a suggerire vita. Sono le 3.30 del mattino, il display arancio dell’auto ammonisce le mie distrazioni. Do il mio ultimo saluto a questa curiosità così funerea che si trasforma in ricordi miei, solo miei, neppure tanto lontani. Ed è già troppo tardi quando tento di cacciarli e distrarmi, perché hanno permeato l’epidermide. Scuoto, ho brividi dappertutto e una sottile paura che mi avvolge i sensi. Premo sull’acceleratore gettando uno sguardo all’incrocio che ho appena tagliato a metà come una mela che rotola via. E ti ricordo mentre l’affettavi e me ne porgevi qualche fetta, io poi prendevo i piccoli semini neri, me li portavo alla bocca e li aprivo con perfezione chirurgica, mangiandoli. Il gusto acidulo sulle labbra. «Smettila di mangiare quei semi che ti fanno male. Sono pericolosi…», mi dicevi ogni volta indispettita. Non ti ho mai creduta, anche se poi in realtà scoprii che avevi ragione, non certo quelle piccole dosi di amarezza avrebbero potuto uccidermi, ma una quantità nettamente superiore: “i semi di mela – c’era scritto su un sito – sono ricchi di amigdalina: gli enzimi della flora batterica degradano la sostanza in composti tossici tra cui, appunto, acido cianidrico. La loro ingestione può provocare intossicazione e avvelenamento di varia entità, sino alla morte”. Sorrido con lentezza e una dolcezza che fa male, mentre penso alla tua voce che a stento ricordo. Guardo la luna rotonda e bellissima. Potrei morire stanotte e sarebbe una notte qualunque, penso.

Attraverso la città e passo a rassegna le insegne pubblicitarie masticate dall’abbandono. Qui, mi dico, c’era una pasticceria molto buona, adesso rimane solo quest’albero di metallo senza insegna e nella vetrina ci sono esposti caschi per moto, bottiglie di olio e lubrificante, e qualche avviso alla clientela: “Offerta tergicristalli”. Svolto l’angolo e noto una Smart rosa confetto con grossi adesivi di Hello Kitty sulle portiere, penso che questa città abbia perso il suo buongusto da tempo ormai. Prendo la strada più lunga, perché i pensieri hanno traiettorie che necessitano di più tempo. Ho sonno e sento gli occhi pesanti, anche se scarseggia in me la voglia di tornare a casa.

Sul selciato ci sono ancora tracce delle linee gialle che delimitavano il posto invalidi che ormai è stato dismesso, dopo la morte dell’anziano signore che ne usufruiva. Posteggio a marcia indietro, e mentre chiudo la portiera dell’auto il rumore riecheggia nel quartiere vuoto. Sorrido, di pensieri così funesti. Sorrido di me e di tutto quello che la mia mente ha partorito. Che razza di pensieri sono questi prima di andare a letto? La chiave gira un paio di volte nella toppa, mi guardo alle spalle come se ci fosse qualcuno pronto a spiarmi. Lascio fuori quella me che stanotte ha giocato con i morti. Getto ogni cosa sul primo ripiano disponibile e mi svesto con distrazione. Mi seggo sul pavimento che ha tutta l’estate sul dorso e brucia, il cane mi lecca il volto, iniziamo a giocare, mentre fuori il tempo fa il suo dovere e l’alba chiede parola.

http://youtu.be/b08ObModLK4

La lettera

«È piuttosto volgare, il buonsenso. Abbassa il livello delle aspirazioni, valuta le possibilità di successo e soprattutto quelle di fallimento, calcola. Il coraggio, la sincerità e l’istinto non hanno nessuna possibilità di resistergli, se gli dai il tempo di organizzarsi e preparare la controffensiva. L’impulso che ci spinge a cambiare, il vento che rovina, non ha quegli argomenti, anzi spesso non ne ha affatto. Non si lascia corrompere da ragioni di convenienza e non pretende di aver ragione. Propone scelte estreme e irresponsabili e non promette risultati. Possiamo assecondarlo o sopprimerlo, prenderlo o lasciarlo, dire sì o no. È questo il bello.» – Diego De Silva

dog

L’ho aspettata per giorni, in quegli spazi di quotidianità che non sono riuscita a riempire. Lavora, lavora, esci, consuma parole e masticale forte per non sentire. L’ho aspettata per giorni, un po’ come fa il mio cane accucciata davanti la porta di casa a spiare i passanti da quel piccolo spiraglio tra il pavimento in roccia e la base del portone. Un’immagine di infinita tenerezza mentre vedo che la sua espressione, incuriosita da quei passanti ignari, improvvisamente si anima quando ravvisa qualcuno di caro avvicinarsi. Sono tutti ballerini stranieri e assenti davanti al suo sguardo fedele e bambino. Un guizzo negli occhi e poi le linee circolari della sua coda che aumentano man mano diminuisca la distanza. Il corpo non tradisce le emozioni, benché meno quelle di un cane che non sa cosa sia la menzogna. È la parte migliore di questa immagine che diventa storia tra le mie dita. L’incapacità di mentire, di progettare modi, di rinviare, quella invece di vivere il tempo nell’immediatezza senza filtri. La parte migliore di questa immagine è quel guizzo negli occhi, sono le feste appena spalanchi la porta, e l’attesa non c’è più, scivolata in una delle crepe sul pavimento. Ma per noi ‘umani’ non è così semplice. A un certo punto senti dolore alle ginocchia, il corpo si irrigidisce, anche i pensieri si indolenziscono e capisci che quell’attesa è inutile, che la tua cosa smetterà di cerchiate l’aria e non ci sarà appartenenza perché i passi costruiranno lontananze e barriere, sedimentazioni di rabbie, assenze, rimpianti e parole rimandate, soffocate in vorrei che rimarranno inghiottiti in gola e poi digeriti nello strappo di un addio. La porta non sarà spalancata e ciò che è più semplice di pelle a pelle non sarà celebrato. Troppo umani. Troppo dannatamente umani. Orgoglio e paura. Ripassi tra i denti tutte le opzioni, strato su strato sull’assenza, e ti dici che è inutile aspettare. Così sei già via, scivolato in quella crepa sul pavimento che è la stessa che hai addosso. Copri il morso con una paura nuova, che un giorno qualcun altro ti troverà addosso.

Con beneficio di inventario*

«Cessare di essere amata, significa diventare invisibile. Tu non ti accorgi più che io abbia un corpo» Marguerite Yourcenar

Francesca Woodman
Francesca Woodman

Normalmente sarei fuggita. Il mio orgoglio l’ha sempre avuta vinta sui sentimenti, costringendomi ad andare via con le mani piene di cocci e paure. Andare via prima del tempo per difendermi da una minaccia che poi, soltanto da poco, capii che era dentro di me. Adesso, proprio adesso, mentre appunto pezzi di me su questo foglio mi arriva un messaggio “Non hai nulla che non va. Quando uno è speciale, non è facile comprenderne le sfaccettature”, ma non sei tu a scrivermi. Non sei tu a  chiedermi come sto quando ho la febbre, a dirmi “copriti bene”, “hai preso qualcosa”, “non lavorare troppo”, non sei tu, almeno adesso. Sono altre donne che mi cercano, non so bene in che maniera, c’è la mia ex che ha così tanta dolcezza per me e i miei demoni, che tutto fa ancora più male. Perché vorrei fossi tu. Lo sbaglio non lo cerco in te, ma in me. Ieri sera mi hai detto «mi fa piacere che tu venga nella mia città, ma se mi chiedi se sono felice di vederti, non posso mentirti, non lo sono. Sono arrabbiata con te, e mi sono allontanata».

Normalmente sarei fuggita. Così mi chiedo cosa ne rimanga di me, se stia commettendo un errore. Ho sempre criticato chi in nome dell’amore ha messo da parte se stesso. E’ questo quello che sto facendo, o cerco solo di capire dove stia il cuore, e dove l’anima? Mi hai anche dato della debole ieri sera, ma perché quel tono che  me lo sbatte addosso come fosse una colpa? Non sono mai stata debole, sono stata fragile e forse melodrammatica, con quell’anima retrò (così mi piace definirla) che coglie nella fragilità altrui qualcosa di bello, come una falla nella velocità che ti invita a entrare, un’ugola emotiva, affettiva. Non a tutti concediamo la nostra fragilità. Mi piacerebbe che la mia fragilità ti ispirasse voglia di protezione. Ma se penso a quell’altra frase «le tue paure non sono un problema mio, te le devi smazzare tu»… forse andrei via per sempre da te. Un senso di vergogna ha conquistato ogni parte di me, mentre le vedo di fronte queste parole, su un foglio bianco, mentre le strappo via dal cuore e le metto su questa pelle virtuale. E’ come se le vedessi per la prima volta. Se fossi una mia amica mi direi di stare a distanza di sicurezza, di mandarti a quel paese, di andare via e salvarmi prima che sia troppo tardi. Ma il cuore ha tempi che nessuno conosce. Io ne ho brandelli e  frammenti infinitesimi. Le fisso quelle parole, me le metto su una spalla come uno di quei pappagalli dei pirati che i libri di avventura ci hanno raccontato. E mi chiedo dove sia la donna di cui mi sono innamorata, ma soprattutto dove sia io.

Normalmente sarei fuggita, ma chiedo un’eccezione al dolore e alle paure e ti cerco per un’ultima volta. Così, tra qualche ora quando ci vedremo, affonda pure le tue mani dentro la mia carne se vuoi, e fallo fino in fondo, fallo fino a spezzarmi, senza ripensamenti e ritorno, perché poi qualsiasi cosa rimarrà di me la porterò via per sempre da te (e da me). 

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*Con beneficio di inventario, titolo del romanzo di Marguerite Yourcenar, 1962

Il punto di non ritorno

«Desiderio di cose leggere/ nel cuore che pesa/ come pietra/ dentro una barca – / Ma giungerà una sera/ a queste rive/ l’anima liberata: […] salperà – […] per un’alta scogliera/ di stelle» – Antonia Pozzi, da Desiderio di cose leggere, 1° febbraio 1934

Rosangela Betti, Barbara, 1984
Rosangela Betti, Barbara, 1984

Ho messo play, If I we be wrong riempie la stanza. Ho iniziato a collezionare musica nuova da quando ti ho conosciuta, per mostrarti qualcosa di bello, tu che ami la musica e me la ridavi come un regalo lasciato sul comodino. Ma sono tornata su questo foglio per un’altra ragione e solo per pochissimi istanti, perché mi sono presa una piccola pausa. Lo so è tardissimo, ma devo consegnare un lavoro domattina anche se al momento non riesco a concentrarmi del tutto, forse saranno i piedi gelati, così tanto che sento bruciare la pianta in alcuni punti e in altri la sensibilità è scarsa. Sono scalza e non ho nessuna voglia di cercare dei calzini. Ricordo quando li prendevi tra le tue mani grandi e li scaldavi, e mi coprivi la notte. Chissà se  mi hai mai guardata dormire con quella tenerezza che gli amanti si scambiano. Cerco di catalogarli i ricordi per lasciarli da qualche parte stanotte. Ho scatole pronte, chissà quante ce ne vorranno. Chissà se dovrò mettere fuori anche un’etichetta. Ma perdo il filo, filo… devo smetterla. Ed è questo il punto, ho letto la nota di prima ed è pazzesco questo inconsapevole altalenarsi nel rivolgermi a te e poi distogliermi. Si sente la lotta e l’abbandono. Ritorna l’immagine di quelle mani che si lasciano. Ritorna, ritorni. Forse potrei lasciarmi solo del tempo e rivolgermi a te ogni tanto, quando sarà inevitabile coglierti nelle cose che mi ricorderanno di un noi che dopotutto non è stato coniugato abbastanza. Eppure sembra avere tantissimo dentro. Eppure sembro avere tantissimo dentro.
Lo so, non sono ancora pronta, avevi ragione tu sulla storia del pensiero e dell’assenza, del fatto che anche se ci saranno altri e altre il pensiero rimarrà altrove. Come un marchio indelebile, e chissà per quanto. Lo so, ci sto provando, ma non sono ancora pronta. Mi sto violando, costringendomi solo per farmi del male, perché sarà quello il punto di non ritorno e io non potrò fare nulla, così darò una scusa a entrambe. Scavalco la linea. Così… Domani.

Vado a bere, il freddo ormai non lo sento più.

http://youtu.be/jGuqb1O5-5s