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senzatitolo #2

«Non vivo due vite. La mia è una vita sola, il lavoro svolto su commissione e le fotografie personali ne fanno parte allo stesso modo» – Annie Leibovitz

https://youtu.be/zA4kMXVr-YU

Biografia inventata di uno scatto: Due amanti in un treno per la Romania

Due amanti, Henri Cartier-Bresson
Due amanti, Henri Cartier-Bresson

«Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale.» – Henri Cartier-Bresson

Li colse così, impreparati, chiusi in un abbraccio esausto. Due amanti in attesa del futuro con nient’altro che se stessi nelle tasche. Quale povertà conosce la possessione?

Il treno si muoveva veloce verso una Romania del 1975. Un momento colto dall’obiettivo di Henri Cartier-Bresson, invitato a visitare Bucarest e la Romania durante la celebrazione della vittoria sui nazisti.

https://youtu.be/4cOr7JmcOas

Salva Bozza

Ti amai, anche se forse
ancora non è spento del
tutto l’amore.
Ma se per te non è più tormento
voglio che nulla ti addolori.
Senza speranza, geloso,
ti ho amata nel silenzio e soffrivo,
teneramente ti ho amata come
-Dio voglia- un altro possa amarti.
Aleksandr Sergeevič Puškin 
Nan Goldin, Kathe in the tub, West Berlin, 1984
Nan Goldin, Kathe in the tub, West Berlin, 1984

Ho cliccato su ‘salva bozza’. Era il primo maggio. ‘Salva bozza’, mi è parsa un’ironia adatta a noi, che non siamo più Noi, non siamo più due, un insieme spezzato. Stanotte mentre lavavo i denti, con movimenti netti e regolari, mi sono lasciata inebetire dai ricordi. Ti sei riflessa nello specchio e mi hai guardata. Ho pensato che ora (da un po’) siamo un ‘less’, la condizione della grammatica inglese che è la più adatta a raccontarci. Gli inglesi sono così pragmatici, come te dopotutto: cordless, tastelesscareless, endless. Siamo una sottrazione. Te senza me, io senza te. Suffissi l’una dell’altra. Così queste parole vengano pure al mondo, imperfette e straniere in questo mare che pian piano ritira le sue maree e mi lascia solitaria e sconfitta. Continua a leggere Salva Bozza

Oggi è uno di quei giorni in cui sceglieresti l’incoscienza

Yamamoto Masao
Yamamoto Masao

Faccio la spesa, passeggio con il cane, mangio, scrivo, faccio le scale, guardo la tv, sbadiglio al mattino, mi lavo i denti, e scelgo i rigatoni agli spaghetti, la pizza alla carne. E dicono che io sorrida. E dicono che io parli e racconti storie che valga la pena ascoltare. E guido l’auto, e impreco contro l’uomo che mi ha appena tagliato la strada, e prosit alla laurea, e tanti mille complimenti, e rispondo al telefono, e apro libri che non leggerò, e sistemo i cassetti, e annuso il mio profumo sulla sciarpa che ti avevo regalato. E faccio il caffè, e il dolore fastidioso al piede, e tento di lavorare, e mi gratto la fronte. E pianifico viaggi che non farò, e scarabocchio sulla mia agenda indifferente, e guardo pagine bianche speranzosa. E faccio benzina, e gonfio le ruote della mia bici,  e scatto foto a sconosciuti, e mi godo il sole sulla faccia. Le senti le onde, le senti? E lecco la salsedine sulle labbra, e giocherello con il filo d’erba che mi è rimasto tra i capelli. E mi muovo. Dicono che io mi muova.
Ma in realtà sono ferma, immobile, su quell’ultima parola senza voce che ci siamo scambiate.

http://youtu.be/1BQsAyh5ZzI

Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Distortion - André Kertész
Distortion – André Kertész

Sono di nuovo qui, ho slegato il filo stretto sulla scatola su cui ho inciso il tuo nome. Il sottotitolo continua a restare il mio, sbiadito e assente sotto il peso del tuo. Le parole non sono mai scelte per caso. Ci sono parole che ci appartengono, parole che ti appartengono e che non pronuncerò più. Ci sono parole come filo, manine, topina, milano, kate bush, gravità, chilometri, solo tua, scopami, tu, io, stiamo insieme, curami, prendimi… Ci sono parole, le più stupide, le più necessarie, che la lingua non articolerà più nella bocca. Ed è una già sconfitta, questa grammatica assente che ti restituisco adesso. Ed è già una menzogna quella che il linguaggio (mio) ha imparato, e le mani (sebbene talvolta si ‘muovano a vuoto’ sulle linee immaginarie del tuo corpo assente, in spasmi che non riesco a controllare). Sono gli altri a credere alla menzogna, sono gli altri a volerlo credere, perché così è più comodo. Mi chiedono, ma in realtà non lo fanno, non sono  interessati alla risposta. Non alla verità. Mi guardano, ma in realtà non mi vedono. E preferiscono credere che sì, sia difficile, ma che io stia meglio. I miei occhi però non hanno imparato quella menzogna, sarà per questo che evitano il mio sguardo. Lo evito anch’io, distrattamente davanti lo specchio sistemo le ciocche ribelli e osservo il mio nuovo taglio. Distrattamente ignoro i nasi dei miei occhi cedere alla gravità (gravità…). Fanno male le attenzioni ancor più della solitudine. Non busserò più alla tua porta e tu, tu non lo farai. Lo abbiamo deciso sbattendoci in faccia il primo (l’ultimo, quello lungo e perpetuo) silenzio, quasi un mese fa. Quasi un mese fa. Ma ero gocciolata lenta da te, da oltre un anno. Ho imballato i se e i ma con quella carta trasparente da imballaggio che mia sorella ama far scoppiare con le sue dita impazienti. Ho fasciato al corpo di quei se-ma strati e strati di carta, per tenerli in fondo a quella scatola, e zittirne i chiacchiericci. Continua a leggere Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Visualizzato il 4 novembre. Ultima lettera a una sconosciuta

«Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. […] Io sono la periferia di una città esistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione». – Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares

Mi scrisse per caso una giornata di maggio di due anni fa, dopo avere visto una galleria di miei scatti fotografici: budelli cittadini fatti di vicoli dimenticati, scalinate spizzicate e volti consumati con mani nodose e segni profondi sulla pelle. Mi ringraziò per quella città, la sua, la mia, traiettoria lontana dalla nuova quotidianità. In qualche inconsapevole maniera le restituivo quegli odori, mi disse. Come una conchiglia, pensai. Fu così che iniziammo a scriverci. E lei iniziò a raccontarmi della sua nostalgia e di pezzi di infanzia: spingendo con polpastrelli consumati su una vecchia foto di famiglia.
Non è la prima volta che capita. E’ già successo in passato di carteggi con sconosciute (solo due uomini), ed è una cosa spessa come il labbro di un tulipano. Come una seduta gratuita dall’analista. Forse non proprio il tuo. Come se fossi il centro, la virgola e il punto. E’ bello, ammettiamolo, scrivere a qualcuno che non sa molto di te e lasciare la libera associazione dei pensieri prendere il sopravvento: senza giudizio, senza corpo, senza sesso né, talvolta, senso. E’ bello lasciarsi asciugare su un foglio e spedirlo, come fosse una lettera imbucata in una di quelle vecchie e dimenticate scatole rosse sul ciglio della strada. E’ bello aspettare il ritorno di quelle parole, e una risposta che non è mai tale perché è un racconto che non risponde né chiede, ma che ti mostra un pezzetto di vita: quello di una donna lontana dal tuo tempo, dal tuo spazio. Qualcuno che a un certo punto della tua giornata irrompe nella stanza, sposta la sedia, si accomoda senza invito né invadenza, ti guarda e inizia a parlarti. Smetti di fare ciò che devi e vai altrove. Un altrove sconosciuto che inizi a immaginare. Accade e basta. E non c’è nessun galateo che ti impone quando e come rispondere: non c’è il registro del tempo, non c’è il devi e puoi. C’è l’addio che non è mai definitivamente doloroso, perché non è mai un vero addio, è il punto su un rigo. Perché non c’erano promesse, né aspettative. C’era quel tempo delle parole come un the delle cinque che potrai prendere con qualcun altro. Terribile? No, sincero. E’ come se scrivessi a te stesso, senza l’incombenza di doverti dare delle spiegazioni. Non ci sono risposte, non ci sono domande.
Vi è mai capitato?


4 novembre 2013 alle ore 21.43

Un anno e un mese da quando mi hai scritto l’ultima volta. Me ne accorgo adesso. Dovrei dirti che mi dispiace di non averti risposto (ed è così), ma il racconto delle dinamiche che hanno sospeso questa risposta per oltre un anno non credo cambierebbe le cose, non credo ti importerebbe (questa parte la cancellerò). La terzultima frase della tua lettera dice «mentre voi litigate con il caldo che si ostina a non finire». Le temperature si sono abbassate, un sottovoce gelato che mi trascina sino alla finestra. La richiudo con troppa forza, come se spingessi un rifiuto molesto sulla pancia di qualcuno. Il cane alla mia destra dorme avvolta su se stessa, accertandosi, di tanto in tanto, che io sia ancora a una spanna da lei. Convinta che la possa davvero difendere (e poi chissà da quale minaccia).
I pensieri sgorgano a fiotti da una ferita pronunciata sulla mano, ma non riesco a individuarla. Una conversazione veloce con un’amica, ed eccomi ieri sera a ripensare, tra quei girotondi di parole, a quelle scambiate tra noi, così senza resistenze né aspettative, come se vi fosse un tempo pregresso, come se fosse normale, in un ‘tu’ che non ci siamo mai scambiate: non un nome, né un saluto, né un tempo o una direzione. Come se fossero dirette più che a noi alle nostre ombre allungate sulla parete. Spero queste non siano adesso inopportune, così le fermo, perché potrei continuare forse per troppe righe ancora, infilando nella buca un’indigestione di parole. Le chiudo, come ho spesso visto fare in ospedale con le flebo, quando gocciolavano cure troppo velocemente. Finché la goccia cadrà lentamente sino a spegnersi. Lascio allora quella domanda (sul potere o non potere), una di quelle a cui non abbiamo mai risposto, partendo sempre da tutt’altro punto, come se queste parole le rivolgessimo a noi stesse.

[visualizzato il 4 novembre 2013 alle ore 21.57]

Se solo non fossi un ‘ma’

Foglie - LeafNon chiedermi dove, né quando. Non chiedermi come, so solo il perché, e questo continua a bastarmi (nonostante tutto) …

http://youtu.be/T9zQcm7Dt5s

Il punto di non ritorno

«Desiderio di cose leggere/ nel cuore che pesa/ come pietra/ dentro una barca – / Ma giungerà una sera/ a queste rive/ l’anima liberata: […] salperà – […] per un’alta scogliera/ di stelle» – Antonia Pozzi, da Desiderio di cose leggere, 1° febbraio 1934

Rosangela Betti, Barbara, 1984
Rosangela Betti, Barbara, 1984

Ho messo play, If I we be wrong riempie la stanza. Ho iniziato a collezionare musica nuova da quando ti ho conosciuta, per mostrarti qualcosa di bello, tu che ami la musica e me la ridavi come un regalo lasciato sul comodino. Ma sono tornata su questo foglio per un’altra ragione e solo per pochissimi istanti, perché mi sono presa una piccola pausa. Lo so è tardissimo, ma devo consegnare un lavoro domattina anche se al momento non riesco a concentrarmi del tutto, forse saranno i piedi gelati, così tanto che sento bruciare la pianta in alcuni punti e in altri la sensibilità è scarsa. Sono scalza e non ho nessuna voglia di cercare dei calzini. Ricordo quando li prendevi tra le tue mani grandi e li scaldavi, e mi coprivi la notte. Chissà se  mi hai mai guardata dormire con quella tenerezza che gli amanti si scambiano. Cerco di catalogarli i ricordi per lasciarli da qualche parte stanotte. Ho scatole pronte, chissà quante ce ne vorranno. Chissà se dovrò mettere fuori anche un’etichetta. Ma perdo il filo, filo… devo smetterla. Ed è questo il punto, ho letto la nota di prima ed è pazzesco questo inconsapevole altalenarsi nel rivolgermi a te e poi distogliermi. Si sente la lotta e l’abbandono. Ritorna l’immagine di quelle mani che si lasciano. Ritorna, ritorni. Forse potrei lasciarmi solo del tempo e rivolgermi a te ogni tanto, quando sarà inevitabile coglierti nelle cose che mi ricorderanno di un noi che dopotutto non è stato coniugato abbastanza. Eppure sembra avere tantissimo dentro. Eppure sembro avere tantissimo dentro.
Lo so, non sono ancora pronta, avevi ragione tu sulla storia del pensiero e dell’assenza, del fatto che anche se ci saranno altri e altre il pensiero rimarrà altrove. Come un marchio indelebile, e chissà per quanto. Lo so, ci sto provando, ma non sono ancora pronta. Mi sto violando, costringendomi solo per farmi del male, perché sarà quello il punto di non ritorno e io non potrò fare nulla, così darò una scusa a entrambe. Scavalco la linea. Così… Domani.

Vado a bere, il freddo ormai non lo sento più.

http://youtu.be/jGuqb1O5-5s

prove di viaggio

Elliot Erwitt - New York City, Third Avenue El, 1955.  [rivisitata]
Elliot Erwitt – New York City, Third Avenue El, 1955. [rivisitata]

«La stanchezza nelle gambe mi fece capire che camminavo da varie ore in una qualche direzione, ma senza un itinerario ben definito, o forse sì, ne avevo uno, casuale, che sebbene non mi portasse da nessuna parte mi allontanava sempre di più dai miei pensieri.»  – Luis Sepúlveda, Diario di un killer sentimentale 

E le senti scivolare dalle dita, le cose intendo, quei momenti esatti in cui vorresti dire altre parole, vorresti perderti in altri sguardi, vorresti essere altrove, vorresti essere semplicemente altro, e dimenticarti, almeno per un po’. Così guardo la bocca della mia macchina fotografica irrigidita da un lungo sbadiglio, e penso che mi piacerebbe muovermi, camminare attraverso città che non conosco. Se c’è qualcosa che mi è mancato è viaggiare, quando sono altrove mi sento a casa.

A tacere di noi

ph. Miranda Lehman | rivisitata

 «E tutto cospira a tacere di noi, come si tace un’onta, come si tace, forse, una speranza ineffabile» – R.M. Rilke, «Seconda Elegia», in Elegie duinesi