Quando ci incontrammo
In una strada laterale delle nostre vie
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Che era vicina e vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo.L’attimo
durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.– Inge Muller
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Chiedi alla polvere

Perderci la vita
battendo quel solo chiodo
estendendo il dominio a quel centimetro
là concentrandolo
sprofondare
fare l’abisso con le proprie mani
spezzettare in atomi
molecole
rompere anche gli atomi
la polvere che resta sulle dita
ti segna in eterno
indossa guanti
metti le mani in tasca
tagliati le mani.
— Bartolo Cattafi
Impazienza d’amore, le mie pelli asciutte dovranno scontare sempre questa condanna. Una fame che digiuna. E ogni volta che i miei denti affamati affondano in carne ‘adultera’ io sento il sapore del dolore indolenzirmi la bocca. Il sangue gela, la mano trema e il tocco diventa ferita netta sulla mia pelle. Spezzo l’abbraccio, ripudio la carezza, come se le dita bruciassero. Una febbre che sto imparando a dissimulare. Quanto fa male la bugia che mi partorisce. Chiedi alla polvere, è lì, è in quella tua pozzanghera di nonamore che sono. Ancora.
[la canzone che mi lasciasti poco prima che io andassi via. così diversa da te. mi sentii impotente dentro la stretta di quel presagio triste]
Infondoallapagina
– Ti odio – mi disse.
Lo sentivo quest’odio, potevo quasi annusarlo, o udirne il suono, ma sogghignai di nuovo. – Lo spero bene, ribattei. – Chi si attira il tuo odio non può essere altro che un tipo in gamba. – Chiedi alla polvere, John Fante
Salva Bozza
Ti amai, anche se forseancora non è spento del
tutto l’amore.
Ma se per te non è più tormento
voglio che nulla ti addolori.
Senza speranza, geloso,
ti ho amata nel silenzio e soffrivo,
teneramente ti ho amata come
-Dio voglia- un altro possa amarti.– Aleksandr Sergeevič Puškin
Ho cliccato su ‘salva bozza’. Era il primo maggio. ‘Salva bozza’, mi è parsa un’ironia adatta a noi, che non siamo più Noi, non siamo più due, un insieme spezzato. Stanotte mentre lavavo i denti, con movimenti netti e regolari, mi sono lasciata inebetire dai ricordi. Ti sei riflessa nello specchio e mi hai guardata. Ho pensato che ora (da un po’) siamo un ‘less’, la condizione della grammatica inglese che è la più adatta a raccontarci. Gli inglesi sono così pragmatici, come te dopotutto: cordless, tasteless, careless, endless. Siamo una sottrazione. Te senza me, io senza te. Suffissi l’una dell’altra. Così queste parole vengano pure al mondo, imperfette e straniere in questo mare che pian piano ritira le sue maree e mi lascia solitaria e sconfitta. Continua a leggere Salva Bozza
Prima che tu dica pronto
A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?
– Italo Calvino – Prima che tu dica pronto, da ‘Gli amori difficili’
E’ difficile, lo ammetto, scrivere come io mi senta, nonostante il sole che impaziente bussa alla finestra, lo scalciare del cane che sogna accanto ai miei piedi, e il tuo nome in bilico sulla bocca umida del ricordo della tua saliva. Non ho passi né pelle che si riscaldi a quel contatto. Continua a leggere Prima che tu dica pronto
Visualizzato il 4 novembre. Ultima lettera a una sconosciuta
«Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. […] Io sono la periferia di una città esistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione». – Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares
Mi scrisse per caso una giornata di maggio di due anni fa, dopo avere visto una galleria di miei scatti fotografici: budelli cittadini fatti di vicoli dimenticati, scalinate spizzicate e volti consumati con mani nodose e segni profondi sulla pelle. Mi ringraziò per quella città, la sua, la mia, traiettoria lontana dalla nuova quotidianità. In qualche inconsapevole maniera le restituivo quegli odori, mi disse. Come una conchiglia, pensai. Fu così che iniziammo a scriverci. E lei iniziò a raccontarmi della sua nostalgia e di pezzi di infanzia: spingendo con polpastrelli consumati su una vecchia foto di famiglia.
Non è la prima volta che capita. E’ già successo in passato di carteggi con sconosciute (solo due uomini), ed è una cosa spessa come il labbro di un tulipano. Come una seduta gratuita dall’analista. Forse non proprio il tuo. Come se fossi il centro, la virgola e il punto. E’ bello, ammettiamolo, scrivere a qualcuno che non sa molto di te e lasciare la libera associazione dei pensieri prendere il sopravvento: senza giudizio, senza corpo, senza sesso né, talvolta, senso. E’ bello lasciarsi asciugare su un foglio e spedirlo, come fosse una lettera imbucata in una di quelle vecchie e dimenticate scatole rosse sul ciglio della strada. E’ bello aspettare il ritorno di quelle parole, e una risposta che non è mai tale perché è un racconto che non risponde né chiede, ma che ti mostra un pezzetto di vita: quello di una donna lontana dal tuo tempo, dal tuo spazio. Qualcuno che a un certo punto della tua giornata irrompe nella stanza, sposta la sedia, si accomoda senza invito né invadenza, ti guarda e inizia a parlarti. Smetti di fare ciò che devi e vai altrove. Un altrove sconosciuto che inizi a immaginare. Accade e basta. E non c’è nessun galateo che ti impone quando e come rispondere: non c’è il registro del tempo, non c’è il devi e puoi. C’è l’addio che non è mai definitivamente doloroso, perché non è mai un vero addio, è il punto su un rigo. Perché non c’erano promesse, né aspettative. C’era quel tempo delle parole come un the delle cinque che potrai prendere con qualcun altro. Terribile? No, sincero. E’ come se scrivessi a te stesso, senza l’incombenza di doverti dare delle spiegazioni. Non ci sono risposte, non ci sono domande.
Vi è mai capitato?
4 novembre 2013 alle ore 21.43
Un anno e un mese da quando mi hai scritto l’ultima volta. Me ne accorgo adesso. Dovrei dirti che mi dispiace di non averti risposto (ed è così), ma il racconto delle dinamiche che hanno sospeso questa risposta per oltre un anno non credo cambierebbe le cose, non credo ti importerebbe (questa parte la cancellerò). La terzultima frase della tua lettera dice «mentre voi litigate con il caldo che si ostina a non finire». Le temperature si sono abbassate, un sottovoce gelato che mi trascina sino alla finestra. La richiudo con troppa forza, come se spingessi un rifiuto molesto sulla pancia di qualcuno. Il cane alla mia destra dorme avvolta su se stessa, accertandosi, di tanto in tanto, che io sia ancora a una spanna da lei. Convinta che la possa davvero difendere (e poi chissà da quale minaccia).
I pensieri sgorgano a fiotti da una ferita pronunciata sulla mano, ma non riesco a individuarla. Una conversazione veloce con un’amica, ed eccomi ieri sera a ripensare, tra quei girotondi di parole, a quelle scambiate tra noi, così senza resistenze né aspettative, come se vi fosse un tempo pregresso, come se fosse normale, in un ‘tu’ che non ci siamo mai scambiate: non un nome, né un saluto, né un tempo o una direzione. Come se fossero dirette più che a noi alle nostre ombre allungate sulla parete. Spero queste non siano adesso inopportune, così le fermo, perché potrei continuare forse per troppe righe ancora, infilando nella buca un’indigestione di parole. Le chiudo, come ho spesso visto fare in ospedale con le flebo, quando gocciolavano cure troppo velocemente. Finché la goccia cadrà lentamente sino a spegnersi. Lascio allora quella domanda (sul potere o non potere), una di quelle a cui non abbiamo mai risposto, partendo sempre da tutt’altro punto, come se queste parole le rivolgessimo a noi stesse.
[visualizzato il 4 novembre 2013 alle ore 21.57]
L’odore del vento [e il suo colore rossoruggine]
Quante insonnie ci sono in una notte? Abbasso la tapparella che tartaglia come i vecchi treni di una volta, quelli con i vagoni rossoruggine della mia infanzia. E ripenso alle ginocchia sbucciate, alle fughe in montagna, alle mani che scalavano vecchi alberi di ulivo dal quale pendeva una gracile altalena, alle mele cotogne e il pane fatto in casa nel forno a legna. Guardavo la fumata nera salire spedita in aria e scontrarsi contro le ‘mie’ nuvole istoriate. Pareva una guerra, come in una scacchiera: il bianco e il nero, il bene e il male. Chi vincerà? Poi mi distraevo, ero troppo piccola e irrequieta, lasciando la battaglia a metà per giocare a pallone o schizzar via con la mia graziella grigia e pedalare fino a sentire scoppiarsi il cuore. C’erano salite che non mi spaventavano e discese che imboccavo sfidando il vento. Ero bambina, una bambina che avevo dimenticato. A cui piaceva l’odore del vento.
Non ho camminato nei tuoi sogni,
nè mi sono mostrato in mezzo alla folla,
non sono apparso nel cortile
dove pioveva o meglio cominciava
a piovere (questo verso
lo cancello e non lo sostituirò),
era allettante credere, come uno stupido,
che ti avrei incontrato presto,
eri tu che mi apparivi in sogno
(e mi prendeva una dolce tenerezza),
mi sistemavi i capelli sulle tempie.
Quell’autunno perfino le poesie
in parte mi riuscivano bene
(però mancava sempre un verso o una rima
per essere felice).
– Boris Ryzyi, Non ho camminato nei tuoi sogni
Connessioni
Il freddo è acuminato
Bacio un fiore di prugno
In sogno
– Sôseki
Si scrive solo per se stessi? Forse, anche. Ma in realtà, come talvolta accade, quando qualcosa che ci fa vibrare viene condiviso con qualcuno che ha sguardo simile, la bellezza si amplifica. O almeno ha sfumature differenti che esaltano. E’ un pensiero abbozzato male, lo so. E’ istantaneo e nasce da considerazioni appuntate sul bordo di uno scambio in differita avvenuto tra me e Valentina, blogger bibliofila. Le parole sono diventate pretesto e voglia di riprendere un vecchio libro di haiku. Per poi da questo scivolare sino ai frammenti di un film visto qualche anno fa (poesia declinata in immagini). E le musiche strette in un ‘filo rosso’, struggenti e ammalate.
[Intanto fuori una striscia di luce taglia in due metà perfette le antenne sul tetto di un palazzo, come labbra aperte sul temporale].
Il filo rosso, le mani strette, i fiori di ciliegio, gli sguardi, l’amore e l’avvilimento. Tutto questo.
Chiudo gli occhi e trattengo, tutto questo. Mentre la tenda si muove a tempo di spifferi e io verso qualche parola su questo foglio digitale.
Questione di punteggiatura
Una libertà oscena, gioiosa, nuda, che nella sua fantasia si ergeva come un’immensa cattedrale spaziosa, magari in rovina, magari scoperchiata, spalancata verso la volta del cielo, nella quale lui e lei sarebbero ascesi in assenza di peso verso un poderoso abbraccio per perdersi, per annegare in ondate di purissima estasi dimentiche di tutto. Era talmente semplice! Come mai non vi si trovavano già, e invece stavano ancora seduti lì, intrappolati da tutte le cose che non sapevano dire, o che non osavano fare? – Ian McEwan, Chesil Beach
E chiudi quella dannata finestra. Mi urla qualcuno dal fondo della stanza. E’ un residuo di me che si ribella al rumore. Ho una certa rigidità alle dita oggi che mi infastidisce. Il tempo è umido e freddo e si appiccica alle parole. Faccio fatica a scrollarmele di dosso, fanno girotondo, ‘giro intorno al mondo‘. Scansano gli impegni in agenda e mi trascinano altrove, ma non ho tempo. Mi dicono: il tempo non esiste. Se morissi domani, dopotutto – continuano a dirmi -, dovresti cessare di far tutto, e quello che ti sembrava improrogabile non lo sarebbe più. Cesserebbe. Così quella sensazione che niente possa essere rimandato. Quella sensazione che ti schiaccia e avvilisce. Dopotutto. Mi interrogo sulla punteggiatura e risalgo la china, sino all’ultima la parola, che è anche la prima. Mi chiedo se sia stata messa in maniera corretta, e ripenso a McEwan. Fottutamente bravo, mi dico. La mia punteggiatura non mi convince. Dovrei aprire la finestra e lasciare che spifferi di aria fredda si intrufolino nella stanza, credo possano essere un buon deterrente alle divagazioni, che stamattina non lasciano molto spazio ad altro. Dovrei prendere righello e matita e tracciare di nuovo le linee, appuntare a margine del foglio annotazioni valide, progetti, progettualità e pianificare la mia vita, crollata come un castello di carte. Ti sei presa una lunga pausa, lei mi ha detto. Era inevitabile, ha aggiunto. Non tutti possono prendersi delle lunghe pause come hai fatto tu, biascica ancora come se io non lo sapessi, come se non sapesse che quella lunga pausa [Io] l’ho presa per lei. Mastica parole che parlano di me, come se non le interessasse. Una punteggiatura sbagliata cambia il senso della frase. E penso alle pause.
Metto due punti, aggiungo qualche virgola e vado a capo. I punti poi vedremo dove metterli.
[Digressione] Com’era quella storiella? «Vado a mangiare nonna» – «Vado a mangiare, nonna». Un articolo su l’arte della punteggiatura, pubblicato su Avvenire. E la virgola salvò la vita a una nonnina.
Una virgola tra me e il resto salverà la mia? Almeno oggi.
Battipanni liberi tutti
In un campo
io sono l’assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
– Mark Strand, Tenendo le cose assieme
Il telefono squilla le sue necessità come fosse un metronomo, in una scansione ritmica che non è la mia. La mia corrente è lentissima oggi, così lenta che pare immobile. Così indugio al sole, alzo un po’ il viso come in attesa di essere ritratta. E mi pare una mano calda che scioglie ogni resistenza. Il mio balcone sembra infinito, e i palazzi si assottigliano sino a scomparire. Una mosca mi vola vicino, un’ambulanza si allontana velocemente dal mio epicentro emotivo, una donna sbatte con forza un vecchio tappeto e la polvere si alza nell’aria come fossero denti di leone. Il rumore sordo che provoca ha un’eco profonda che mi riporta indietro: il battipanni in vimini di mia nonna, io impegnata a far volare la polvere colpendo sempre più forte sulla pelle abbandonata di quel tappeto rosso finto persiano, che lasciava pendere da uno dei fili stesi sulla sua terrazza. «Colpisci forte» mi diceva, e io sorridevo mentre vedevo la polvere smarrirsi nell’aria e sentivo la sua voce provenire da un’altra stanza, intenta a cantare «Forse in amore le rose non si usano più, ma questi fiori sapranno parlarti di me. Rose rosse per te ho comprato stasera...».
E a vedere quel battipanni abbandonato per terra in un angolo della sua casa, che è uno scrigno vuoto, mi si stringe il cuore. Il respiro è pizzicato dal dolore. Questo novembre doveva pur venire con tutte le sue ‘assenze’. Non è come un lunedì che si può evitare. E novembre è la somma di tutti i miei lunedì. Se apro gli occhi tutto finisce, mi dico. Battipanni liberi tutti.
Sono (solo) una parte infinitesima di
E ancora, stancamente, ti dirò
— Scusami ma lo devo dire! —
La tua anima mi stava
Di traverso sulla mia.
E ti voglio dire ancora:
— Sempre uguale è la vigilia! —
Fino al primo bacio tuo
Questa bocca era bambina.
Il mio sguardo — fiero e chiaro
Fino al primo sguardo tuo,
Il mio cuore — di cinquenne…
Beato chi non t’ha incontrata
Sulla sua strada
– Marina Cvetaeva
La foto sbuca all’improvviso su una vecchia pagina web, non ricordo neanche come ci sia arrivata. Non voglio scoprirlo. I suoi occhi mi puntano dritto in faccia e la fitta spinge nel petto. La riconosco come una vecchia marea che non ha segreti per me, che mi ha tirato giù così tante volte che stento a contarle. L’apnea che coincide con il suo nome. Sono trascorsi dieci anni, capisci (?!), non è poi così normale. Chiudo subito la pagina, la sua bellezza mi ferisce, ferisce l’assenza. E sei lei non fosse lei? Se lei fosse solo il barattolo di biscotti nel quale ho messo tutte le mie insoddisfazioni? Se lei non fosse ancora così bella… Vorrei scendere le scale di fretta e correre a piedi nudi per strada, mentre i cani randagi continuano a ululare e le luci tremano a ogni alito di vento. Attraversare i palazzi dai volti allungati e silenziosi che mi spiano, una foresta di cemento che azzererebbe la grandezza dei miei pensieri: se alzo lo sguardo vedo la mia parte infinitesima del tutto. Una parte infinitesima che le è rimasta attaccata addosso. Qualcosa che mai più verrà restituita. Accade sempre quando un grande amore finisce. Così hai pezzi di te in giro per il mondo a guardare tramonti da un altro emisfero, a bere una birra ghiacciata e scambiare chiacchiere in un’altra lingua, a fotografare spigoli di palazzi e panchine abbandonate, a passeggiare in vecchi cimiteri monumentali alla ricerca di tombe illustri, a pronunciare parole d’amore su altri orecchi, ad abbandonarti a pelle e saliva in stanze sconosciute, a investire in promesse che sono già state pronunciate, a scontrarti con altre infinitesime parti che non sono le tue, né le sue, a realizzare che l’amore è solo un passaparola. A capire che unico e unica sono solo parole, schegge di inutilità da mettere in un barattolo, insieme a questa insonnia.
E’ una corrente anche questa, partorita in notturno e non so dove andrà: sul fondo di quella scatola di biscotti in cui ti ho catalogata anni fa. Sei una corrente tu, che sbatte sulla pelle e scava (ma solo in una parte infinitesima di me).