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Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Distortion - André Kertész
Distortion – André Kertész

Sono di nuovo qui, ho slegato il filo stretto sulla scatola su cui ho inciso il tuo nome. Il sottotitolo continua a restare il mio, sbiadito e assente sotto il peso del tuo. Le parole non sono mai scelte per caso. Ci sono parole che ci appartengono, parole che ti appartengono e che non pronuncerò più. Ci sono parole come filo, manine, topina, milano, kate bush, gravità, chilometri, solo tua, scopami, tu, io, stiamo insieme, curami, prendimi… Ci sono parole, le più stupide, le più necessarie, che la lingua non articolerà più nella bocca. Ed è una già sconfitta, questa grammatica assente che ti restituisco adesso. Ed è già una menzogna quella che il linguaggio (mio) ha imparato, e le mani (sebbene talvolta si ‘muovano a vuoto’ sulle linee immaginarie del tuo corpo assente, in spasmi che non riesco a controllare). Sono gli altri a credere alla menzogna, sono gli altri a volerlo credere, perché così è più comodo. Mi chiedono, ma in realtà non lo fanno, non sono  interessati alla risposta. Non alla verità. Mi guardano, ma in realtà non mi vedono. E preferiscono credere che sì, sia difficile, ma che io stia meglio. I miei occhi però non hanno imparato quella menzogna, sarà per questo che evitano il mio sguardo. Lo evito anch’io, distrattamente davanti lo specchio sistemo le ciocche ribelli e osservo il mio nuovo taglio. Distrattamente ignoro i nasi dei miei occhi cedere alla gravità (gravità…). Fanno male le attenzioni ancor più della solitudine. Non busserò più alla tua porta e tu, tu non lo farai. Lo abbiamo deciso sbattendoci in faccia il primo (l’ultimo, quello lungo e perpetuo) silenzio, quasi un mese fa. Quasi un mese fa. Ma ero gocciolata lenta da te, da oltre un anno. Ho imballato i se e i ma con quella carta trasparente da imballaggio che mia sorella ama far scoppiare con le sue dita impazienti. Ho fasciato al corpo di quei se-ma strati e strati di carta, per tenerli in fondo a quella scatola, e zittirne i chiacchiericci. Continua a leggere Il mio ultimo regalo a te. Me senza me.

Con beneficio di inventario*

«Cessare di essere amata, significa diventare invisibile. Tu non ti accorgi più che io abbia un corpo» Marguerite Yourcenar

Francesca Woodman
Francesca Woodman

Normalmente sarei fuggita. Il mio orgoglio l’ha sempre avuta vinta sui sentimenti, costringendomi ad andare via con le mani piene di cocci e paure. Andare via prima del tempo per difendermi da una minaccia che poi, soltanto da poco, capii che era dentro di me. Adesso, proprio adesso, mentre appunto pezzi di me su questo foglio mi arriva un messaggio “Non hai nulla che non va. Quando uno è speciale, non è facile comprenderne le sfaccettature”, ma non sei tu a scrivermi. Non sei tu a  chiedermi come sto quando ho la febbre, a dirmi “copriti bene”, “hai preso qualcosa”, “non lavorare troppo”, non sei tu, almeno adesso. Sono altre donne che mi cercano, non so bene in che maniera, c’è la mia ex che ha così tanta dolcezza per me e i miei demoni, che tutto fa ancora più male. Perché vorrei fossi tu. Lo sbaglio non lo cerco in te, ma in me. Ieri sera mi hai detto «mi fa piacere che tu venga nella mia città, ma se mi chiedi se sono felice di vederti, non posso mentirti, non lo sono. Sono arrabbiata con te, e mi sono allontanata».

Normalmente sarei fuggita. Così mi chiedo cosa ne rimanga di me, se stia commettendo un errore. Ho sempre criticato chi in nome dell’amore ha messo da parte se stesso. E’ questo quello che sto facendo, o cerco solo di capire dove stia il cuore, e dove l’anima? Mi hai anche dato della debole ieri sera, ma perché quel tono che  me lo sbatte addosso come fosse una colpa? Non sono mai stata debole, sono stata fragile e forse melodrammatica, con quell’anima retrò (così mi piace definirla) che coglie nella fragilità altrui qualcosa di bello, come una falla nella velocità che ti invita a entrare, un’ugola emotiva, affettiva. Non a tutti concediamo la nostra fragilità. Mi piacerebbe che la mia fragilità ti ispirasse voglia di protezione. Ma se penso a quell’altra frase «le tue paure non sono un problema mio, te le devi smazzare tu»… forse andrei via per sempre da te. Un senso di vergogna ha conquistato ogni parte di me, mentre le vedo di fronte queste parole, su un foglio bianco, mentre le strappo via dal cuore e le metto su questa pelle virtuale. E’ come se le vedessi per la prima volta. Se fossi una mia amica mi direi di stare a distanza di sicurezza, di mandarti a quel paese, di andare via e salvarmi prima che sia troppo tardi. Ma il cuore ha tempi che nessuno conosce. Io ne ho brandelli e  frammenti infinitesimi. Le fisso quelle parole, me le metto su una spalla come uno di quei pappagalli dei pirati che i libri di avventura ci hanno raccontato. E mi chiedo dove sia la donna di cui mi sono innamorata, ma soprattutto dove sia io.

Normalmente sarei fuggita, ma chiedo un’eccezione al dolore e alle paure e ti cerco per un’ultima volta. Così, tra qualche ora quando ci vedremo, affonda pure le tue mani dentro la mia carne se vuoi, e fallo fino in fondo, fallo fino a spezzarmi, senza ripensamenti e ritorno, perché poi qualsiasi cosa rimarrà di me la porterò via per sempre da te (e da me). 

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*Con beneficio di inventario, titolo del romanzo di Marguerite Yourcenar, 1962