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Sarà stato il freddo a portarti qui da me

Winter Arm - by Robert Shana ParkeHarrison
Winter Arm – by Robert Shana ParkeHarrison

Batto alla tua porta di sogno
con le mie nocche leggere,
con le mie mani leggere
come una bimba che cerca pace.
Vorrei parlarti del freddo del cuore,
del mio cuore di radice ferita.
Vorrei dirti che come te
ho bevuto un vino di troppo,
un vino di giusquiamo dolce,
un vino volonteroso
per cui la volontà dei poeti
diventa roccia sicura.
Tu che sei scalatore di mondi,
dovresti dirmi
perché la grazia rimane indietro
e perché dove c’è neve c’è freddo,
e dove c’è fuoco di passione
riarde il malefizio. […]
– Alda Merini

Sapevo che i ricordi  prima o poi sarebbero venuti a prendermi. Ho nocche spaccate dal freddo e mani irrigidite da una gelida agonia cittadina che ci trova impreparati. Geneticamente inadatta a questa pioggia che ininterrotta batte e si rompe i denti sulle mie pelli inermi. Sarà il freddo a portarti qui da me. Un presagio che tu avevi preannunciato. Come una maledizione che mi scagliasti addosso quell’ultima volta: «Mi penserai sempre, anche quando qualcun’altra ti toccherà, anche quando penserai di amare un’altra donna che non sia io». Talvolta accade, lo ammetto. Come stamattina. Come stanotte che ti ho incontrata nella tua fredda città imbiancata da nebbia e pioggia. Continua a leggere Sarà stato il freddo a portarti qui da me

Presente perpetuo (almeno per mezz’ora)

Bresson

Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale,
cucina, albergo, radio, fonderia,
in mare, su un aereo, in autostrada,
a chi scavalca questa notte senza un saluto,
bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta,
a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta
a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando,
a chi non è stato invitato in nessun posto,
allo straniero che impara l’italiano,
a chi studia musica, a chi sa ballare il tango,
a chi si è alzato per cedere il posto,
a chi non si può alzare, a chi arrosisce,
a chi legge Dickens, a chi piange al cinema,
a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio,
a chi ha perduto tutto e ricomincia,
all’astemio che fa uno sforzo di condivisione,
a chi è nessuno per la persona amata,
a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà un eroe,
a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia,
a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo,
a chi restituisce da quello che ha avuto,
a chi non capisce le barzellette,
all’ultimo insulto che sia l’ultimo,
ai pareggi, alle ics della schedina,
a chi fa un passo avanti e così disfa la riga,
a chi vuol farlo e poi non ce la fa,
infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera
e tra questi non ha trovato il suo.

– Erri De Luca

Prego accomodatevi in questa stanza in bilico tra il freddo e i rumori di una strada in cui la vita continua fuori, oltre la finestra e me, con i suoi mugolii assenti e distratti. Non qui, la vita l’ho chiusa oltre l’iride trasparente della finestra con lentiggini di fango dimenticate dall’ultima pioggia. Sentite il vezzo dell’arrotino sbattere contro il vetro, e il venditore di pesce che parla con la signora gravida di tempo affacciata da un terzo piano anonimo, panni bianchi e blu a prendersi pioggia e freddo. Oggi ho scadenze di cui occuparmi e non c’è tempo per gli interminabili e fastidiosi trilli di whatsapp, con necessità che si sono accavallate. I codici del lavoro e quelli urbani sono cambiati, virtualizzati in questa iperconnessione che mi toglie il fiato. Il cane fa gomitoli come fosse un gatto, e mi domando sorridente di questa strana casualità. Continua a leggere Presente perpetuo (almeno per mezz’ora)

40 gradi a Sud

Ho preso il tuo biglietto, sono entrato nel mare
e l’ho depositato sulla superficie dell’acqua.
L’onda l’ha avvolto, ed è scomparso dalla vista.
Oddìo, ho pensato per un momento
con quel batticuore di quando si assiste ad una partenza
(le partenze causano sempre un po’ d’ansia,
e tu sai che in me è sempre eccessiva), finirà contro le rocce.
E invece no. Ha preso la direzione giusta,
galleggiando gagliardamente sulla corrente che rinfresca il piccolo golfo.
Ed è scomparso in un attimo. Ho cercato di sventolare l’asciugamano
per dirti ciao, ma tu eri già troppo lontana.
Magari non te ne sei neppure accorta.
– Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi

Non mi aspettavo certo una risposta. Che credi. Non mi aspettavo nulla. Me lo ripetevo mentre tratteggiavo il mio biglietto d’auguri a te, con fiori bianchi, come quelli che tuo padre aveva l’abitudine di regalarti. E’ stata solo una carezza, niente di più. Non mi aspettavo nulla. Me lo sono ripetuta mentre pensavo a quale fosse la luce migliore per spedirti quel pensiero, e le cose da scriverti. Così ho smesso di pensare e ti ho inviato tutto, con un piccione digitale che non so neppure sia arrivato sino a te, a infiniti chilometri di distanza. Non ho pensato neppure al fuso orario. Questo caldo non lascia tregua, così i pensieri boccheggiano come tutte le resistenze che vorrei poter trovare. O forse no.
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È tanto che non ti scrivo | poesia di Angelo Maria Ripellino

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È tanto che non ti scrivo. Non ho tue notizie.
Ma sempre spero che un giorno tu possa tornare
nella città che hai cantato.
Come stupide navi si dissolvono gli anni.
Io recito al Wolker. Sono serena. Il passato
lo tengo lontano, sui margini, come un intruso.
C’è solo un filo di ignobile malinconia,
che trapela talvolta di sotto una porta,
ma io riesco a tagliarlo, fingendomi ottusa
e decrepita come una mummia di Strindberg.
La primavera ha inondato di bionde forsythie
la piccola casa in cui vivo, in cui studio le parti.
Com’è duro parlarsi a distanza,
quando l’armadio del cuore
vorrebbe aprirsi in un fiotto di chiacchiere.
Eppure vedrai, se verrai: dopo secoli
non avremo che dirci, vi sarà solo un attònito,
goffo, appallottolato, bruciante silenzio.
È tanto che non ti scrivo
– Angelo Maria Ripellino

Il vento gonfia le tende. La mia riabilitazione continua. Cerco di lavorare, cerco di andare. Cerco.

http://youtu.be/YmVUFLmMCdc

Visualizzato il 4 novembre. Ultima lettera a una sconosciuta

«Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. […] Io sono la periferia di una città esistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione». – Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares

Mi scrisse per caso una giornata di maggio di due anni fa, dopo avere visto una galleria di miei scatti fotografici: budelli cittadini fatti di vicoli dimenticati, scalinate spizzicate e volti consumati con mani nodose e segni profondi sulla pelle. Mi ringraziò per quella città, la sua, la mia, traiettoria lontana dalla nuova quotidianità. In qualche inconsapevole maniera le restituivo quegli odori, mi disse. Come una conchiglia, pensai. Fu così che iniziammo a scriverci. E lei iniziò a raccontarmi della sua nostalgia e di pezzi di infanzia: spingendo con polpastrelli consumati su una vecchia foto di famiglia.
Non è la prima volta che capita. E’ già successo in passato di carteggi con sconosciute (solo due uomini), ed è una cosa spessa come il labbro di un tulipano. Come una seduta gratuita dall’analista. Forse non proprio il tuo. Come se fossi il centro, la virgola e il punto. E’ bello, ammettiamolo, scrivere a qualcuno che non sa molto di te e lasciare la libera associazione dei pensieri prendere il sopravvento: senza giudizio, senza corpo, senza sesso né, talvolta, senso. E’ bello lasciarsi asciugare su un foglio e spedirlo, come fosse una lettera imbucata in una di quelle vecchie e dimenticate scatole rosse sul ciglio della strada. E’ bello aspettare il ritorno di quelle parole, e una risposta che non è mai tale perché è un racconto che non risponde né chiede, ma che ti mostra un pezzetto di vita: quello di una donna lontana dal tuo tempo, dal tuo spazio. Qualcuno che a un certo punto della tua giornata irrompe nella stanza, sposta la sedia, si accomoda senza invito né invadenza, ti guarda e inizia a parlarti. Smetti di fare ciò che devi e vai altrove. Un altrove sconosciuto che inizi a immaginare. Accade e basta. E non c’è nessun galateo che ti impone quando e come rispondere: non c’è il registro del tempo, non c’è il devi e puoi. C’è l’addio che non è mai definitivamente doloroso, perché non è mai un vero addio, è il punto su un rigo. Perché non c’erano promesse, né aspettative. C’era quel tempo delle parole come un the delle cinque che potrai prendere con qualcun altro. Terribile? No, sincero. E’ come se scrivessi a te stesso, senza l’incombenza di doverti dare delle spiegazioni. Non ci sono risposte, non ci sono domande.
Vi è mai capitato?


4 novembre 2013 alle ore 21.43

Un anno e un mese da quando mi hai scritto l’ultima volta. Me ne accorgo adesso. Dovrei dirti che mi dispiace di non averti risposto (ed è così), ma il racconto delle dinamiche che hanno sospeso questa risposta per oltre un anno non credo cambierebbe le cose, non credo ti importerebbe (questa parte la cancellerò). La terzultima frase della tua lettera dice «mentre voi litigate con il caldo che si ostina a non finire». Le temperature si sono abbassate, un sottovoce gelato che mi trascina sino alla finestra. La richiudo con troppa forza, come se spingessi un rifiuto molesto sulla pancia di qualcuno. Il cane alla mia destra dorme avvolta su se stessa, accertandosi, di tanto in tanto, che io sia ancora a una spanna da lei. Convinta che la possa davvero difendere (e poi chissà da quale minaccia).
I pensieri sgorgano a fiotti da una ferita pronunciata sulla mano, ma non riesco a individuarla. Una conversazione veloce con un’amica, ed eccomi ieri sera a ripensare, tra quei girotondi di parole, a quelle scambiate tra noi, così senza resistenze né aspettative, come se vi fosse un tempo pregresso, come se fosse normale, in un ‘tu’ che non ci siamo mai scambiate: non un nome, né un saluto, né un tempo o una direzione. Come se fossero dirette più che a noi alle nostre ombre allungate sulla parete. Spero queste non siano adesso inopportune, così le fermo, perché potrei continuare forse per troppe righe ancora, infilando nella buca un’indigestione di parole. Le chiudo, come ho spesso visto fare in ospedale con le flebo, quando gocciolavano cure troppo velocemente. Finché la goccia cadrà lentamente sino a spegnersi. Lascio allora quella domanda (sul potere o non potere), una di quelle a cui non abbiamo mai risposto, partendo sempre da tutt’altro punto, come se queste parole le rivolgessimo a noi stesse.

[visualizzato il 4 novembre 2013 alle ore 21.57]