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scrivere, perché…

Non ho mai voluto rinunciare alla mia disperazione, ha diverse declinazioni, le più belle le partorisco su un foglio.

“Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve.” – Anaïs Nin

L’orgasmo è la salvezza. Un pomeriggio con Susan

Duane Michals4

E’ venerdì. A inizio settimana il week-end mi pare distante e irraggiungibile, poi è come se arrivasse di improvviso. Un misto di ansia e irrequietezza, come se dopo quei due giorni mi aspettasse il baratro del nulla. E’ colpa di questa crisi lavorativa che mi attanaglia. Colpa di responsabilità che dovrei sentire addosso, e che dovrebbero, a loro volta, farmi sentire in colpa. Ma in realtà, non le sento. La vita che ho adesso aderisce perfettamente a voglie che neppure sapevo di avere. Sono felice. Nonostante tutto, lo sono. Stamattina sveglia alle 9, il cane è salito sul letto e ci ha obbligate a iniziare la giornata con le sue necessità. Sorridiamo, giochiamo un po’ sul letto. Tutte e tre. Talvolta mi chiedo quando finirà, non sono abituata a questa lunga calma (che calma non è). Conviviamo da fine settembre, lo so, troppo presto e avventato, ma ci incastriamo alla perfezione. Ogni tanto qualche sbavatura. Si può avere presentimento del passato? Ho terminato il mio lutto, preso coscienza, ho chiuso e lasciato. Lobotomia emotiva. Eccomi ora, alle sediciediciassette dell’8 maggio duemilaquindici, con un bicchiere di vino bianco vicino, i torpori della stanza in penombra e la luce fastidiosa del display che continuo a non regolare. Eccomi nuova, ammaccata, claudicante e fiera. Carpentiera della mia nuova vita (mi chiedo se alla mia età – tra i trenta e i quarantanni se ve lo steste chiedendo – questa rivoluzione possa essere perdonata), in pausa da un lavoro che amava sfruttare i miei entusiasmi e ritornata sui libri, dopo tantissimo tempo. E’ l’orgasmo dei sensi e non è provocato dal suo corpo vibrante sopra il mio, né dai suoi sussurri notturni che mi augurano la buona notte mentre il sonno incede, o dai morsi su gote e braccia che mi dà dopo avermi rincorsa attorno al tavolo e ‘catturata’, no. E’ l’orgasmo di una sottile e continua felicità che mi permette di dormire la notte e lascia fuori quell’insonnia che ho succhiato dai seni di mia madre. 17.01 torno a questo scritto salvato in bozza in attesa dell’invio. Spezzo l’attesa e lascio sul foglio le parole di Susan Sontag. Lei mi chiama, distesa poco distante da me sul divano: “Dammi un bacio…”

«L’orgasmo mi fa concentrare. Ho una gran voglia di scrivere. L’arrivo dell’orgasmo non è la salvezza ma, qualcosa di più, la nascita del mio ego. Non posso scrivere finché non trovo il mio ego. L’unico tipo di scrittore che potrei essere è il tipo che si espone… Scrivere è spendersi, giocarsi d’azzardo. Ma fino ad ora non mi era piaciuto nemmeno il suono del mio nome. Per scrivere, devo amare il mio nome. Gli scrittori sono innamorati di se stessi… e i libri che scrivono nascono da quell’incontro e da quella violenza.» – Dai taccuini e i diari di Susan Sontag, 1958-67 29 dicembre 1958, Parigi St. Germain des Prés.

Interruzioni

«E allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada». – Sylvia Plath

Interruzioni

Non ho mai smesso di scrivere, non ho mai smesso di inventare storie e coglierle per strada nello sguardo di qualcuno di sconosciuto, in una foto dimenticata dentro la pozzanghera, in un uomo seduto in una panchina con lo sguardo perso nel vuoto. Non ho mai smesso di scrivere, significherebbe smettere di respirare. Ma a un certo punto, e non saprei bene quando, ho posato la penna e le storie sono rimaste dentro la mia testa. Non le ho lasciate più sgorgare fuori, strette in piccole bolle apostrofate nel silenzio, dentro la mia testa, nel sottovuoto di emozioni che negli anni si è creato. Il mio terapeuta dice che sono come un puntino lontano da me stessa – lei avrebbe bisogno di un microscopio, è paterno mentre me lo dice, non che mio padre mi abbia mai parlato così o mostrato alcuna cura per la mia vita. Le sue parole sembrano finire sempre sulla punta delle rughe che gli incorniciano gli occhi in un sorriso – non riesco a vedere le cose da vicino, ho solo la capacità di raccontarle, ma non di saperle gestire. Credo intenda che quel sottovuoto sia diventato l’intercapedine tra le mie emozioni e la mia pelle. Non sento più, o almeno ho smesso di capirlo.

Non scrivo più, non lo faccio, ho posato la penna e non riesco a ricordarmi dove. A volte credo che sia il caos della mia stanza a farmi rinviare ogni intento. Mi ripropongo di sgomberare il mio scrittoio e lasciare solo l’essenziale: un foglio bianco e la penna, per non sentire il peso delle cose. Lascerei uno spiraglio tra me e il resto. La luce non filtrerebbe più bisbigliata nella stanza, ma a boccate spesse conquisterebbe quei nuovi spazi, e forse, me, chissà… Continuo solo a riprometterlo, intanto il tempo passa e così come il mio ventre ad avvizzire è anche la mia capacità di scrivere. Ormai mi   limito a criticare le storie altrui, trovare la sceneggiatura di un film o la trama di un libro, di un racconto, debole, troppo debole e così finisco anche per essere un po’ arrabbiata, fasciata in un’ansia con cui ho imparato a convivere, mi interrogo sulla sfacciataggine di gente così incapace, che però pubblica ‘cose’ del genere. Cose. Forse sono solo invidiosa. No, non è invidia, è solo un rammarico che brucia nello stomaco e mi piega, proprio come adesso, e anche se buttassi giù un intero flacone di maalox, la sensazione non sparirebbe. Il mio terapeuta mi ha detto: non si può fuggire – io però vorrei – non può farlo, non ha 15 anni e non la condurrebbe a nulla, potrebbe però pensare a un palazzo da costruire con cose che salverebbe dal passato, di se stessa – non vedo niente di salvabile. Ho dimenticato la penna, chissà dove sia. Se potessi fuggire in un luogo in cui nessuno mi conosce, potrei essere. Non vorrei portarmi nulla, nemmeno la penna. Non avrei bisogno di inventare storie da sostituire alla mia.

Ho smesso di scrivere, è questa la storia. E forse, un po’ sì, anche di respirare…