
A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione – Jack Kerouac, Sulla strada
Le finestre di notte hanno frasi strette sulle labbra. Torno verso casa, è tardissimo, l’orologio dell’auto segna le 3.14 del mattino. La strada non è del tutto vuota. Al terzo piano di un palazzo anni ’70, con tracce visibili di tempo sul volto, tutte le stanze sono illuminate. Non si vedono ombre dietro le tende bianche con arabeschi al centro. Rallento piano con l’auto e mi sporgo a guardare dentro il portone di ingresso dell’edificio, convinta di trovare il registro delle visite per la veglia funebre, qualche corona di fiori sul pavimento e forse un parente o un amico pronto per l’ultimo saluto. Avrei potuto anche sentirgli i pensieri mentre attendeva l’ascensore e con lo sguardo basso passava a rassegna le parole da dire. “Condoglianze…”, “E’ una grave perdita…”, “Come faremo, come faremo…”, “Non immaginavo…”, “Ma stava così bene…”, “E’ meglio così, soffriva troppo, non era più vita…”, “Oddio… oddio”… Silenzio, semplicemente silenzio. Era un uomo o una donna? Un adulto o un bambino? Era.
Il portone è vuoto però, non c’è nessuna traccia di morte o dolore. La luce sul soffitto è accesa, qualcuno sarà passato da lì, ma non un amico dolente né un parente in ‘visita di dovere’. Alzo lo sguardo un’ultima volta e vedo le quattro finestre illuminate, e ancora nessuna ombra a suggerire vita. Sono le 3.30 del mattino, il display arancio dell’auto ammonisce le mie distrazioni. Do il mio ultimo saluto a questa curiosità così funerea che si trasforma in ricordi miei, solo miei, neppure tanto lontani. Ed è già troppo tardi quando tento di cacciarli e distrarmi, perché hanno permeato l’epidermide. Scuoto, ho brividi dappertutto e una sottile paura che mi avvolge i sensi. Premo sull’acceleratore gettando uno sguardo all’incrocio che ho appena tagliato a metà come una mela che rotola via. E ti ricordo mentre l’affettavi e me ne porgevi qualche fetta, io poi prendevo i piccoli semini neri, me li portavo alla bocca e li aprivo con perfezione chirurgica, mangiandoli. Il gusto acidulo sulle labbra. «Smettila di mangiare quei semi che ti fanno male. Sono pericolosi…», mi dicevi ogni volta indispettita. Non ti ho mai creduta, anche se poi in realtà scoprii che avevi ragione, non certo quelle piccole dosi di amarezza avrebbero potuto uccidermi, ma una quantità nettamente superiore: “i semi di mela – c’era scritto su un sito – sono ricchi di amigdalina: gli enzimi della flora batterica degradano la sostanza in composti tossici tra cui, appunto, acido cianidrico. La loro ingestione può provocare intossicazione e avvelenamento di varia entità, sino alla morte”. Sorrido con lentezza e una dolcezza che fa male, mentre penso alla tua voce che a stento ricordo. Guardo la luna rotonda e bellissima. Potrei morire stanotte e sarebbe una notte qualunque, penso.
Attraverso la città e passo a rassegna le insegne pubblicitarie masticate dall’abbandono. Qui, mi dico, c’era una pasticceria molto buona, adesso rimane solo quest’albero di metallo senza insegna e nella vetrina ci sono esposti caschi per moto, bottiglie di olio e lubrificante, e qualche avviso alla clientela: “Offerta tergicristalli”. Svolto l’angolo e noto una Smart rosa confetto con grossi adesivi di Hello Kitty sulle portiere, penso che questa città abbia perso il suo buongusto da tempo ormai. Prendo la strada più lunga, perché i pensieri hanno traiettorie che necessitano di più tempo. Ho sonno e sento gli occhi pesanti, anche se scarseggia in me la voglia di tornare a casa.
Sul selciato ci sono ancora tracce delle linee gialle che delimitavano il posto invalidi che ormai è stato dismesso, dopo la morte dell’anziano signore che ne usufruiva. Posteggio a marcia indietro, e mentre chiudo la portiera dell’auto il rumore riecheggia nel quartiere vuoto. Sorrido, di pensieri così funesti. Sorrido di me e di tutto quello che la mia mente ha partorito. Che razza di pensieri sono questi prima di andare a letto? La chiave gira un paio di volte nella toppa, mi guardo alle spalle come se ci fosse qualcuno pronto a spiarmi. Lascio fuori quella me che stanotte ha giocato con i morti. Getto ogni cosa sul primo ripiano disponibile e mi svesto con distrazione. Mi seggo sul pavimento che ha tutta l’estate sul dorso e brucia, il cane mi lecca il volto, iniziamo a giocare, mentre fuori il tempo fa il suo dovere e l’alba chiede parola.
http://youtu.be/b08ObModLK4
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