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Melone giallo, gazzosa e alibi

Quand’ero bambino
vissi, senza sapere,
solo per avere oggi
quella rimembranza
– Fernando Pessoa

Una dannata zecca appesa al suo collo. Sotto i polpastrelli sembra uno dei semini che si trovano dentro il melone giallo. Mi ricordano le distese gialle abbandonate al sole di Pantelleria. Il dammuso in mezzo al nulla, le notti a guardare la luna dalla piccola finestrella incorniciata da ragnatele. Ragni grossi e sottili, invisibili di giorno, come fossero alchimie prodotte dalla notte pronte a sfidare un sonno già infestato dai gemiti profondi e spettrali degli uccelli che abitano l’isola. Hiranim, l’isola degli uccelli starnazzanti, la chiamavano i Fenici. Continua a leggere Melone giallo, gazzosa e alibi

La finestra della stanza di corallo

Abbandonati e galleggia | sopra il mare o sull’erba, |immobile, il viso al cielo.
Ti sentirai calare lenta, | verso l’alto, nella vita dell’aria. | E ci incontreremo | oltre le differenze | invincibili, sabbie, rocce, anni, ormai soli, | nuotatori celesti, | naufraghi dei cieli. – Pedro Salinas

La finestra è ancora lì, mi fissa, spenta e assente parla di una casa vuota. Di sera, però, una piccola luce si accende nella stanza con la finestra stretta e storta. Storta come un bambino la disegnerebbe. Circondata da una terrazza, fasciata dall’abbraccio metallico di antenne che guardano l’orizzonte. Non è colorata, ma grigia della nascita, come se nessuno se ne fosse mai curato, come se dopo averla costruita l’avessero dimenticata lì. Continua a leggere La finestra della stanza di corallo

Prima che tu dica pronto

A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?
Italo Calvino – Prima che tu dica pronto, da ‘Gli amori difficili’

E’ difficile, lo ammetto, scrivere come io mi senta, nonostante il sole che impaziente bussa alla finestra, lo scalciare del cane che sogna accanto ai miei piedi, e il tuo nome in bilico sulla bocca umida del ricordo della tua saliva. Non ho passi né pelle che si riscaldi a quel contatto. Continua a leggere Prima che tu dica pronto

Visualizzato il 4 novembre. Ultima lettera a una sconosciuta

«Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. […] Io sono la periferia di una città esistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione». – Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares

Mi scrisse per caso una giornata di maggio di due anni fa, dopo avere visto una galleria di miei scatti fotografici: budelli cittadini fatti di vicoli dimenticati, scalinate spizzicate e volti consumati con mani nodose e segni profondi sulla pelle. Mi ringraziò per quella città, la sua, la mia, traiettoria lontana dalla nuova quotidianità. In qualche inconsapevole maniera le restituivo quegli odori, mi disse. Come una conchiglia, pensai. Fu così che iniziammo a scriverci. E lei iniziò a raccontarmi della sua nostalgia e di pezzi di infanzia: spingendo con polpastrelli consumati su una vecchia foto di famiglia.
Non è la prima volta che capita. E’ già successo in passato di carteggi con sconosciute (solo due uomini), ed è una cosa spessa come il labbro di un tulipano. Come una seduta gratuita dall’analista. Forse non proprio il tuo. Come se fossi il centro, la virgola e il punto. E’ bello, ammettiamolo, scrivere a qualcuno che non sa molto di te e lasciare la libera associazione dei pensieri prendere il sopravvento: senza giudizio, senza corpo, senza sesso né, talvolta, senso. E’ bello lasciarsi asciugare su un foglio e spedirlo, come fosse una lettera imbucata in una di quelle vecchie e dimenticate scatole rosse sul ciglio della strada. E’ bello aspettare il ritorno di quelle parole, e una risposta che non è mai tale perché è un racconto che non risponde né chiede, ma che ti mostra un pezzetto di vita: quello di una donna lontana dal tuo tempo, dal tuo spazio. Qualcuno che a un certo punto della tua giornata irrompe nella stanza, sposta la sedia, si accomoda senza invito né invadenza, ti guarda e inizia a parlarti. Smetti di fare ciò che devi e vai altrove. Un altrove sconosciuto che inizi a immaginare. Accade e basta. E non c’è nessun galateo che ti impone quando e come rispondere: non c’è il registro del tempo, non c’è il devi e puoi. C’è l’addio che non è mai definitivamente doloroso, perché non è mai un vero addio, è il punto su un rigo. Perché non c’erano promesse, né aspettative. C’era quel tempo delle parole come un the delle cinque che potrai prendere con qualcun altro. Terribile? No, sincero. E’ come se scrivessi a te stesso, senza l’incombenza di doverti dare delle spiegazioni. Non ci sono risposte, non ci sono domande.
Vi è mai capitato?


4 novembre 2013 alle ore 21.43

Un anno e un mese da quando mi hai scritto l’ultima volta. Me ne accorgo adesso. Dovrei dirti che mi dispiace di non averti risposto (ed è così), ma il racconto delle dinamiche che hanno sospeso questa risposta per oltre un anno non credo cambierebbe le cose, non credo ti importerebbe (questa parte la cancellerò). La terzultima frase della tua lettera dice «mentre voi litigate con il caldo che si ostina a non finire». Le temperature si sono abbassate, un sottovoce gelato che mi trascina sino alla finestra. La richiudo con troppa forza, come se spingessi un rifiuto molesto sulla pancia di qualcuno. Il cane alla mia destra dorme avvolta su se stessa, accertandosi, di tanto in tanto, che io sia ancora a una spanna da lei. Convinta che la possa davvero difendere (e poi chissà da quale minaccia).
I pensieri sgorgano a fiotti da una ferita pronunciata sulla mano, ma non riesco a individuarla. Una conversazione veloce con un’amica, ed eccomi ieri sera a ripensare, tra quei girotondi di parole, a quelle scambiate tra noi, così senza resistenze né aspettative, come se vi fosse un tempo pregresso, come se fosse normale, in un ‘tu’ che non ci siamo mai scambiate: non un nome, né un saluto, né un tempo o una direzione. Come se fossero dirette più che a noi alle nostre ombre allungate sulla parete. Spero queste non siano adesso inopportune, così le fermo, perché potrei continuare forse per troppe righe ancora, infilando nella buca un’indigestione di parole. Le chiudo, come ho spesso visto fare in ospedale con le flebo, quando gocciolavano cure troppo velocemente. Finché la goccia cadrà lentamente sino a spegnersi. Lascio allora quella domanda (sul potere o non potere), una di quelle a cui non abbiamo mai risposto, partendo sempre da tutt’altro punto, come se queste parole le rivolgessimo a noi stesse.

[visualizzato il 4 novembre 2013 alle ore 21.57]

Un happy ending

ph. Lynn Johnson
ph. Lynn Johnson

«Ogni momento accade due volte: all’interno e all’esterno, e sono due storie diverse» – Zadie Smith

Un happy ending tutti lo vorrebbero. Non prendiamoci in giro. Mi volto e guardo oltre la finestra spalancata, la feritoia rossa di una tenda a mezz’asta. Sento rumori assordanti provenire dalla strada e mescolarsi alla musica. Solo piano. Il cellulare lampeggia mille parole e più di disordinati messaggeri. Non ho molta voglia di rispondere, e digitare sui piccoli tasti touch screen mi innervosisce. Mi innervosisce anche questa stretta allo stomaco che sembra più lo scolo di un rubinetto rotto. Potrei chiudere gli occhi e immaginare il silenzio. Qualche anno fa seguii un corso di yoga dove ti insegnavano a respirare, a immaginarti punti colorati sopra la testa, a trascendere perché tu sei il microcosmo nel macrocosmo, e cose del genere. Mi insegnarono a respirare e sentii le mie branchie irrigidite quasi spezzarsi. «Immaginate il dolore come una lunga linea a cui abbandonarsi». E io chiudevo gli occhi e mi abbandonavo a quella linea di dolore, mentre china sul cesso stavo male per quegli spasmi che mi spezzavano in due e che in qualche modo, scoprii anni dopo, erano collegati alla piccola noce che mi cresceva nel cervello. Non fu un periodo granché bello. Lei ha un tumore signorina, e così via. «Potrebbe non potrebbe…». Decisi, in qualche modo, di stare ferma. Ora questa è una verità a cui mi piacerebbe mescolare finzione, per allontanarmi da questo pensiero matriosca che potrebbe inghiottirmi. Oggi non è la giornata adatta per farmi fagocitare. Oggi voglio un happy ending, che suoni come il mio inglese spizzicato e impreciso (lei me lo ha ripetuto sino allo sfinimento). Chiudo in un pugno i pensieri e li getto da qualche parte (anche questo me lo ha insegnato qualcuno). Il muso del mio cane al sole mi intenerisce, dorme e sogna, muovendo le zampe in un prato che sta immaginando. I cani hanno un’anima? Anche su questo gli esperti si spaccano, come se ogni cosa dovesse essere per forza discussa, approvata, sviscerata. Come se ogni cosa dovesse avere una spiegazione, e perché no, il suo happy ending. I cani, allora, hanno un’anima, e ci aspettano quando muoiono davanti all’enorme cancello di oro zecchino, e scodinzolano quando scorgono il nostro passo immortale avvicinarsi, e leccano la nostra cazzo di faccia ectoplasmatica. Non hanno bisogno di guinzagli né di museruole, e saremo capaci di discutere perché parleranno, o forse parleremo noi la loro lingua. Così staremo lì accovacciati in un angolo di paradiso a raccontarci di questa o quella volta, e dirci tutto quello che non eravamo mai stati in grado di dirci… Il mio happy ending.

http://youtu.be/-uZlvKXnYU4

Sulla strada [le luci della città]

Sulla strada

A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione – Jack Kerouac, Sulla strada

Le finestre di notte hanno frasi strette sulle labbra. Torno verso casa, è tardissimo, l’orologio dell’auto segna le 3.14 del mattino. La strada non è del tutto vuota. Al terzo piano di un palazzo anni ’70, con tracce visibili di tempo sul volto, tutte le stanze sono illuminate. Non si vedono ombre dietro le tende bianche con arabeschi al centro. Rallento piano con l’auto e mi sporgo a guardare dentro il portone di ingresso dell’edificio, convinta di trovare il registro delle visite per la veglia funebre, qualche corona di fiori sul pavimento e forse un parente o un amico pronto per l’ultimo saluto. Avrei potuto anche sentirgli i pensieri mentre attendeva l’ascensore e con lo sguardo basso passava a rassegna le parole da dire. “Condoglianze…”, “E’ una grave perdita…”, “Come faremo, come faremo…”, “Non immaginavo…”, “Ma stava così bene…”, “E’ meglio così, soffriva troppo, non era più vita…”, “Oddio… oddio”… Silenzio, semplicemente silenzio. Era un uomo o una donna? Un adulto o un bambino? Era.

Il portone è vuoto però, non c’è nessuna traccia di morte o dolore. La luce sul soffitto è accesa, qualcuno sarà passato da lì, ma non un amico dolente né un parente in ‘visita di dovere’. Alzo lo sguardo un’ultima volta e vedo le quattro finestre illuminate, e ancora nessuna ombra a suggerire vita. Sono le 3.30 del mattino, il display arancio dell’auto ammonisce le mie distrazioni. Do il mio ultimo saluto a questa curiosità così funerea che si trasforma in ricordi miei, solo miei, neppure tanto lontani. Ed è già troppo tardi quando tento di cacciarli e distrarmi, perché hanno permeato l’epidermide. Scuoto, ho brividi dappertutto e una sottile paura che mi avvolge i sensi. Premo sull’acceleratore gettando uno sguardo all’incrocio che ho appena tagliato a metà come una mela che rotola via. E ti ricordo mentre l’affettavi e me ne porgevi qualche fetta, io poi prendevo i piccoli semini neri, me li portavo alla bocca e li aprivo con perfezione chirurgica, mangiandoli. Il gusto acidulo sulle labbra. «Smettila di mangiare quei semi che ti fanno male. Sono pericolosi…», mi dicevi ogni volta indispettita. Non ti ho mai creduta, anche se poi in realtà scoprii che avevi ragione, non certo quelle piccole dosi di amarezza avrebbero potuto uccidermi, ma una quantità nettamente superiore: “i semi di mela – c’era scritto su un sito – sono ricchi di amigdalina: gli enzimi della flora batterica degradano la sostanza in composti tossici tra cui, appunto, acido cianidrico. La loro ingestione può provocare intossicazione e avvelenamento di varia entità, sino alla morte”. Sorrido con lentezza e una dolcezza che fa male, mentre penso alla tua voce che a stento ricordo. Guardo la luna rotonda e bellissima. Potrei morire stanotte e sarebbe una notte qualunque, penso.

Attraverso la città e passo a rassegna le insegne pubblicitarie masticate dall’abbandono. Qui, mi dico, c’era una pasticceria molto buona, adesso rimane solo quest’albero di metallo senza insegna e nella vetrina ci sono esposti caschi per moto, bottiglie di olio e lubrificante, e qualche avviso alla clientela: “Offerta tergicristalli”. Svolto l’angolo e noto una Smart rosa confetto con grossi adesivi di Hello Kitty sulle portiere, penso che questa città abbia perso il suo buongusto da tempo ormai. Prendo la strada più lunga, perché i pensieri hanno traiettorie che necessitano di più tempo. Ho sonno e sento gli occhi pesanti, anche se scarseggia in me la voglia di tornare a casa.

Sul selciato ci sono ancora tracce delle linee gialle che delimitavano il posto invalidi che ormai è stato dismesso, dopo la morte dell’anziano signore che ne usufruiva. Posteggio a marcia indietro, e mentre chiudo la portiera dell’auto il rumore riecheggia nel quartiere vuoto. Sorrido, di pensieri così funesti. Sorrido di me e di tutto quello che la mia mente ha partorito. Che razza di pensieri sono questi prima di andare a letto? La chiave gira un paio di volte nella toppa, mi guardo alle spalle come se ci fosse qualcuno pronto a spiarmi. Lascio fuori quella me che stanotte ha giocato con i morti. Getto ogni cosa sul primo ripiano disponibile e mi svesto con distrazione. Mi seggo sul pavimento che ha tutta l’estate sul dorso e brucia, il cane mi lecca il volto, iniziamo a giocare, mentre fuori il tempo fa il suo dovere e l’alba chiede parola.

http://youtu.be/b08ObModLK4

Volevo dirti che ho fatto ritorno

Linda Borciani
Linda Borciani

Volevo dirti che ho fatto ritorno
E mi sento spessa come il labbro di un tulipano
ampia e rigogliosa come la primavera
che batte le punta delle sue dita impazienti
sul volto di queste piogge tardive.

Volevo dirti che ho guardato i chilometri scorrere
tra le rotaie assenti
lasciare nugoli di polvere dietro la mia figura incompleta,
mentre cercavo di far combaciare il tuo nome al mio
e attraversavo paralleli come gli anelli di un albero
imparando la distanza come un’abitudine
– che ha ripreso a  farci compagnia –

Volevo dirti che il mio corpo caldo e febbricitante
è lì che ancora attende, perché ha accolto la tua preghiera alla pazienza
come pagamento di uno strappo che in parte abbiamo ricucito
Ma le promesse hanno un tempo, così come il peccato
e mi chiedo, perché in tutti quei giorni insieme,
i nostri corpi si siano sfiorati come fossero penitenti,
perché non abbia sentito scoccare la tua lingua
dentro la mia bocca assetata e le tue mani non abbiano preso
ciò che le tue parole continuavano a reclamare.
Sei mia… sei mia… mi dicevi filando i proclami della gelosia
trattenendomi mentre compievo le geometrie della valigia
chiedendomi più tempo per cucirsi addosso.

Volevo dirti che le sento le tue paure
insinuarsi tra le nostre parole
come fossero distorsioni della voce nella cornetta
Credi siano sbagliati adesso questi miei dubbi fasciati ai polsi
mentre il corpo freme in questa assenza confusa?
Perché non hai affondato il tuo morso nella mia carne impaziente?
Perché mi stuzzicavi con i tuoi baci e i tuoi abbracci
per poi, come due adolescenti spaventati
dallo sguardo di un cattolico capezzale,
arretrare?

Volevo dirti che sento freddo mentre ripasso a memoria le tue parole
Quando mi hai detto che era il tuo corpo che rifiutavi, e non il mio.
Ma troppe bugie in questa osmosi di amore
si sono scambiate tra i nostri corpi vuoti
che crederti fino in fondo è davvero difficile

Volevo dirti che ho provato appena, solo per non cadere
che non osavo spingermi oltre i tuoi abbracci spaventata da un rifiuto,

Volevo dirti di inseguire il mio sguardo oltre noi
e guardare come la primavera si succede sui palazzi e tra i vicoli asciutti
come i suoi aliti spingano contro il vetro per incedere con tutti i suoi umori

Volevo dirti che quando sarà estate
l’inverno gelido del tuo amore potrebbe spezzarsi
e allora non rimarrà davvero più nulla.

Copyright © 2013. Tutti i diritti riservati

Con beneficio di inventario*

«Cessare di essere amata, significa diventare invisibile. Tu non ti accorgi più che io abbia un corpo» Marguerite Yourcenar

Francesca Woodman
Francesca Woodman

Normalmente sarei fuggita. Il mio orgoglio l’ha sempre avuta vinta sui sentimenti, costringendomi ad andare via con le mani piene di cocci e paure. Andare via prima del tempo per difendermi da una minaccia che poi, soltanto da poco, capii che era dentro di me. Adesso, proprio adesso, mentre appunto pezzi di me su questo foglio mi arriva un messaggio “Non hai nulla che non va. Quando uno è speciale, non è facile comprenderne le sfaccettature”, ma non sei tu a scrivermi. Non sei tu a  chiedermi come sto quando ho la febbre, a dirmi “copriti bene”, “hai preso qualcosa”, “non lavorare troppo”, non sei tu, almeno adesso. Sono altre donne che mi cercano, non so bene in che maniera, c’è la mia ex che ha così tanta dolcezza per me e i miei demoni, che tutto fa ancora più male. Perché vorrei fossi tu. Lo sbaglio non lo cerco in te, ma in me. Ieri sera mi hai detto «mi fa piacere che tu venga nella mia città, ma se mi chiedi se sono felice di vederti, non posso mentirti, non lo sono. Sono arrabbiata con te, e mi sono allontanata».

Normalmente sarei fuggita. Così mi chiedo cosa ne rimanga di me, se stia commettendo un errore. Ho sempre criticato chi in nome dell’amore ha messo da parte se stesso. E’ questo quello che sto facendo, o cerco solo di capire dove stia il cuore, e dove l’anima? Mi hai anche dato della debole ieri sera, ma perché quel tono che  me lo sbatte addosso come fosse una colpa? Non sono mai stata debole, sono stata fragile e forse melodrammatica, con quell’anima retrò (così mi piace definirla) che coglie nella fragilità altrui qualcosa di bello, come una falla nella velocità che ti invita a entrare, un’ugola emotiva, affettiva. Non a tutti concediamo la nostra fragilità. Mi piacerebbe che la mia fragilità ti ispirasse voglia di protezione. Ma se penso a quell’altra frase «le tue paure non sono un problema mio, te le devi smazzare tu»… forse andrei via per sempre da te. Un senso di vergogna ha conquistato ogni parte di me, mentre le vedo di fronte queste parole, su un foglio bianco, mentre le strappo via dal cuore e le metto su questa pelle virtuale. E’ come se le vedessi per la prima volta. Se fossi una mia amica mi direi di stare a distanza di sicurezza, di mandarti a quel paese, di andare via e salvarmi prima che sia troppo tardi. Ma il cuore ha tempi che nessuno conosce. Io ne ho brandelli e  frammenti infinitesimi. Le fisso quelle parole, me le metto su una spalla come uno di quei pappagalli dei pirati che i libri di avventura ci hanno raccontato. E mi chiedo dove sia la donna di cui mi sono innamorata, ma soprattutto dove sia io.

Normalmente sarei fuggita, ma chiedo un’eccezione al dolore e alle paure e ti cerco per un’ultima volta. Così, tra qualche ora quando ci vedremo, affonda pure le tue mani dentro la mia carne se vuoi, e fallo fino in fondo, fallo fino a spezzarmi, senza ripensamenti e ritorno, perché poi qualsiasi cosa rimarrà di me la porterò via per sempre da te (e da me). 

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*Con beneficio di inventario, titolo del romanzo di Marguerite Yourcenar, 1962

prove di viaggio

Elliot Erwitt - New York City, Third Avenue El, 1955.  [rivisitata]
Elliot Erwitt – New York City, Third Avenue El, 1955. [rivisitata]

«La stanchezza nelle gambe mi fece capire che camminavo da varie ore in una qualche direzione, ma senza un itinerario ben definito, o forse sì, ne avevo uno, casuale, che sebbene non mi portasse da nessuna parte mi allontanava sempre di più dai miei pensieri.»  – Luis Sepúlveda, Diario di un killer sentimentale 

E le senti scivolare dalle dita, le cose intendo, quei momenti esatti in cui vorresti dire altre parole, vorresti perderti in altri sguardi, vorresti essere altrove, vorresti essere semplicemente altro, e dimenticarti, almeno per un po’. Così guardo la bocca della mia macchina fotografica irrigidita da un lungo sbadiglio, e penso che mi piacerebbe muovermi, camminare attraverso città che non conosco. Se c’è qualcosa che mi è mancato è viaggiare, quando sono altrove mi sento a casa.