“L’importante è cercare, non importa se si trova o non si trova.” Antonio Tabucchi, Per Isabel: un mandala, 2013
Singapore, 2044
Tratto di una storia vera. Ogni donna che ho amato potrebbe riconoscersi. Confondersi. Perdersi. Ritrovarsi.
Ma io?! Io no. Io non sono mai stata ciò che loro hanno visto. O voluto vedere. Così è iniziata la storia della nostra perdita quando ci incontrammo
No, no che non ti ho dimenticata. Sul letto la sindone dei sogni precedenti. Ricordi di cosa abbiamo parlato?
Era un addio all’amore. Un vuoto profondo accorgersi che ti ho riposto in fondo alla scatola. Quasi diciotto anni dopo il nostro addio, la nostra carne fusa alla carne di un’altra, altro indirizzo, geografie lontanissime che non abbiamo più attraversato, parole versate su altra bocca e lingua a raccogliere un piacere che non è più nostro. Intanto fuori dal finestrino dell’auto che mi trasporta in questo inferno, Han (il mio autista che mischia l’inglese al malese rendendo incomprensibile gran parte delle cose) mi spiega dove siamo e cosa vediamo. Il mio sguardo si contrae e rilascia come il cielo di questa mattina uggiosa, le sue parole continuano pertanto a galleggiarmi sopra la testa senza raggiungermi del tutto.
Prendo in mano il telefono, rileggo la conversazione di qualche settimana fa dopo il chiassoso silenzio sbattuto in faccia senza premesse. Dopo: “come puoi amare un’altra allo stesso modo in cui hai detto di amare me“. Ho lasciato cadere la domanda passandoci sopra con altre parole. Che razza di domanda è? mi sono detta. Due donne adulte, che non si vedono da diciotto anni. Che razza di domanda è?! Ho tracciato il perimetro del mio appartamento come fosse un circuito automobilistico. Fuori si vedono i grattacieli, sul tetto in fondo se chino leggermente la testa a sinistra c’è una piscina. Le luci esplodono di notte, di giorno si impone il verde di giardini verticali, orizzontali, plastici, opportunamente costruiti per scontare la pena di questo vetro, di questo cemento. Eh sì, è qui che ti ho maledetta, per averti fatta entrare, di nuovo. (Ma quando esattamente sei uscita?).
Lo specchio mi restituisce la dimensione delle cose. La mano scivola sulla fronte come per rassettare i millemila pensieri che mi passano per la testa. Penso a come potrei dirti che in questi anni la vita è stata crudele, che dubito di Dio e dell’amore per ogni cosa, che la mia innocenza c’è ma fa fatica, molta fatica perché qualcuno continua a masticarla.
“Marta, sono una donna adulta, sono molto cambiata…“. Lei ride di rimando, mi dice che non è vero. Anche se al telefono la sua voce ha l’effetto di incalzarmi, come se ci trovassimo nella stessa stanza e lei pian piano mi spingesse all’angolo. “Per il mio passato, per la nostalgia che mi ha legato a te, per l’assenza che mi sono portata addosso” ripeto come fosse una preghiera, mentre indietreggio. Mentre avanza e mi faccio terra sotto i suoi piedi. Sprofondo nella mia poltrona girevole mid century con un vistoso taglio sul bracciolo destro da cui fuoriesce uno sbuffo di gommapiuma ingiallita. “Tu mi hai cambiata” ti soffio all’orecchio nell’ultima speranza che veda finalmente il dolore di questi anni.
Proprio adesso mentre scrivo di te a una pagina estranea alle nostre vite, mi mandi un tuo autoscatto, ti dico che il tempo non sembra essere passato (ma il tuo sorriso è triste e corrotto dal dolore). Continui a inviarmi traiettorie del tuo sguardo in questa città bianca che stai attraversando, mentre giri un altro pezzo di mondo in una prospettiva in cui esisti solo tu, ma se spostassimo di quel poco l’obiettivo vedrei la donna che ha preso il mio posto. Se spostassi l’obiettivo vedresti la donna che ha preso il tuo posto. Il suo nome non mi è concesso dirlo, quando ho provato ti sei irrigidita, anzi ti sei proprio incazzata. Lei, la mia C., rimarrà sempre la fine del nostro amore.
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