Guarderò la tua ombra se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose, Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi. Da ” Il vangelo secondo Gesù Cristo” di Josè Saramago
Andare via è sempre un’ottima soluzione se si tratta di amore. Tu non hai altra scelta che amare te stessa. Nel tram che ci porta in giro per la città, le figure si allontanano dietro di noi. Ci sono le foglie dell’inverno che nessuno ha ancora raccolto. Coprono le rotaie. La nebbia intorno avvolge i grattacieli di City Life. Le vele dell’imponente borghesia che non conosce i nostri affanni, come noi non conosciamo il futuro che ci attende. Vai via, e mentre te lo dico mi sembro dentro un frammento di Saffo. Con quest’anima melò che ci sta bene con la nebbia, con il tuo silenzio, con le foglie sulle rotaie. Ti dico, e lo penso, anche se mi guardi incredula: vai via. Se non puoi essere felice con te stessa, non lo sarai neppure in questo rapporto.
Le porte si aprono. Scendiamo qui, ti dico. Ti afferro il braccio e ti respiro. Il tuo odore è la mia casa. Una casa a cui ho imparato pian piano a rinunciare. Perché nessuna casa infelice può essere abitata.
Ho come dei continui valzer nella testa che mi portano altrove rispetto a dove dovrei andare. Mi sono chiesta in queste settimane se io non soffra di procrastinazione. Ho scoperto che è una vera e propria patologia. Oddio, non saprei se si chiami così la patologia. Quanto sia grave. Lo è per me al momento, con una lista infinita di impegni che ho continuato ad accettare fino a ingolfare la mia agenda. E ho infilato la testa nel catino di zinco del tempo. Sono in apnea. Non respiro proprio. Che poi l’agenda ce l’ho, anche il weekly planner, e il daily planner (la mia compagna tenta di educarmi comprandomi ogni tipo di formato che abbiano messo in vendita) e anche l’agenda digitale dello smartphone… non ne uso nessuna. Inizio, sì. Proseguo e riprendo ogni tanto. Ma rovinosamente poi smetto, appunto tutto in testa. Una testa che procrastina. Una testa da bianconiglio. Dimentico di non dimenticare. Procrastino. Anche adesso. Mentre il foglio bianco è aperto sul doppio display del pc, alla mia destra. Dovrei ultimare una consegna, anzi iniziarla. Perché non si può finire qualcosa che si è iniziato. Ma non riesco. Eppure basterebbe così poco. Perché mi chiedo? Capita anche a voi? Esistono dei gruppi di ascolto di procrastinatori? Che poi, me li immagino, si inizierebbe a parlare di altro e mai della procrastinazione.
Te lo incarto? – mi dici – Portalo via – aggiungi Ti lascio tutto anche l’ombra ho bisogno dell’assenza del vuoto del dolore Per ricominciare Senza te Te Senza Me Senza TeMe-re
Come uno spillo. La testa della goccia che rimane salda sulla superficie bianco matto del lavandino mi ricorda tanto me. Aggrappata a pareti a picco rischio di cadere dentro me stessa. Il mio riflesso è distorto dalla rabbia. Oggi, te l’ho mostrata. Mi hai sentita scaraventare parole al vuoto della stanza, mentre tu dall’altra parte del telefono ascoltavi in silenzio. Il silenzio. Ti ho mostrato la ferita profonda di figlia che rimane sempre figlia. La mia storia singolare. Perché non importa l’età. Non importa la forza, né l’equilibrio di cui siamo dotati. Né quello che ci siamo duramente costruite. Rimaniamo figlie, figli, di madri e padri che ci hanno resi rotti. E rotto è il mio modo di amare.
Mentre qualcuno parte io rimango qua. Mentre qualcuno si ama io rimango qua. Mentre ti penso e vorrei chiamarti io rimango qua. Non attraverserò il vorrei. Rimango qua, nel mentre. Aspettando che passi.
E non è quell’aspettare, quel passare, di qualcuno affacciato a un balcone, di qualcuno con la fronte appoggiata alla finestra fredda che guarda per strada. E getta occhio e cuore alla fine della via. Quel mentre della finestra accesa de “L’empire des lumières”. di donne antiche fasciate in scialli neri ad aspettare ritorni tra le onde del mare. E non è quell’aspettare di vedove, di figli, di madri, di amanti. Non è l’aspettare del ritorno da una guerra, da un viaggio. è l’aspettare dell’addio Quel mentre che ci perdona e ci guarisce. Quel mentre che placa e zittisce. Quel mentre che cancellerà il tuo nome.
Forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli. – Dino Buzzati, da “Il deserto dei tartari”
Ti scrivo questa lettera ieri, ma te la darò domani. Il tempo è così sottile che rischia di spezzarsi come i nostri corpi. Un rocchetto vuoto. Il filo è rimasto con l’ago conficcato nel cuore. Se porto le dita sul petto faccio fatica. Il plesso solare è un pettine con denti rotti. Anche adesso. Senti il respiro…? Faccio Fatica. Mi perdo tra carte di vorrei. Tra cambiali in cui ti do tempo. “Dammi tempo. Saprò amarti come chiedi.” Ma poi come tutti dimentichi, svoltato l’angolo del cuore. Questa inquietudine costruita su un castello di assenze. Il cuore ha girato la sua punta e non può contenerci entrambe. È diventata assenza. Come un amore comune. Di quelli che non si dicono “ti amo” perché è banale. Ma, addio lo pronunciano come tutti gli altri. Addio. Così ti saluto mio ‘non amore’.
È successo che è successo. E mi ero ripromessa che non sarebbe più accaduto. Il caffè si è bruciato. La camicia di viscosa, blu, è rimasta stesa fuori, sotto la pioggia. Ora che il sole è tornato la vedo sventolare, sola. Di fronte al filo colorato dei panni della mia dirimpettaia. Gli abiti stesi del vicino sono sempre più colorati. Di verde c’è il tappetino del mio mouse. Il conto in banca (che le frasi fatte ci piacciono oggi). C’è la mia bile quando leggo l’ennesimo messaggio della mia ex, che si somma a quello dell’altra ex. Mi dicono: “dovresti lasciare andare le cose. Meriti di essere vista”. Nella cecità di un passato in comune in cui per loro ero invisibile. Di verde c’è l’intimo che indosso. L’intimità che rimandiamo con “lei” a ogni week end.
La mano Il piede La bocca Gli occhi L’orecchio Il cuore Te li lascio. Appesi al chiodo sopra la porta Le carezze I balli improvvisi per casa I baci in ascensore Gli sguardi che si cercano tra la folla. Te li lascio. Accanto alle chiavi di casa
Che sia l’amore tutto ciò che esiste È ciò che noi sappiamo dell’amore; E può bastare che il suo peso sia Uguale al solco che lascia nel cuore.
Emily Dickinson
Ho una voglia così estrema, estenuante, di smettere. Smettermi in lei. Vorrei lasciarla andare in un urlo che soffoco dentro. Perché non riesco a lasciarla andare? Perché? In un girotondo non richiesto sento intorno le parole di chi mi ama incalzare l’addio. Mi dicono: guardati. Guarda l’assenza sul tuo viso. Il tuo malessere. Si è cibata della tua leggerezza, del tuo sorriso. Lasciala. Lasciala. Lasciala andare via. Parole che sono come un presentimento. Mentre digerisco la lista dei perché e trattengo il laccio che ho stretto intorno alla sua vita gracile. La metà della pagina è piena delle mancanze, delle voglie disattese, di tutte le cose che lei non mi dà. Non ha colpa, se non quella contenuta dal mio rimanere. Non si è mai professata diversa da quella che è, da quello che non può darmi. L’amore è il colera del nostro secolo.
Mi spiace principessa, sono lento ad amare. Credimi, è inesperienza L’incapacità di mostrare affetto, i lunghi minuti senza parole e poi forse un maldestro sfiorare mentre sorseggio vino, mentre ogni volta ho pensato “Diglielo!”. Ma non l’ho fatto. Invece rimango inquieto e pensoso, Come mi dicono facciano i bambini in adolescenza, Ma non ho detto: “Ho percorso miglia Fa così freddo fuori, per esserti accanto Senza piani o sotterfugi in testa, so che sembro morto, imbronciato e silenzioso ma il mio bisogno più grande è essere con te, in silenzio.