Plof! Se mi tocchi bruci.

A proposito, è il sorriso
che mi estenua di più.
Il sorriso, e il far finta
di non sentirli.

Elena di Troia balla sul bancone, Margaret Atwood

Plof! Senti il rumore? Plof! Potrebbe essere il rumore del mio pugno stanco che bussa alla tua porta e cade nel silenzio. Plof! Ho lanciato la rete sperando di attirare l’attenzione della tua mano. Sul mio volto stanco. I tuoi occhi. Sulle mie parole spezzate. Il suono della tua voce mischiata a un accento distante. Su questa stanchezza che pesa sugli occhi. Il bacio delle tue labbra spesse come il corpo di un tulipano. Su queste mani tremanti. Le tue a fare barriera.

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La solitudine è l’unico atto di verità di cui dispone un individuo sano

Una donna nel mio letto.
Due donne sul mio corpo.
Tre donne alla mia tavola.
Manco io.

Mi chiami. Il telefono squilla. E io non mi accorgo.
Non mi accorgo che l’ultimo tuo messaggio è lì che attende da giorni.
Sono al telefono con la gentilezza. Mi dico.
Con la sua voce piena di presenza e attenzioni.
Che non è la tua. Che è la sua.

Mi chiami. E non rispondo.
Ma la pelle quando legge il tuo nome si spacca.
Continuo a sentirlo il vuoto.
Meno. Molto meno,
Ma lo sento.
Sento e faccio fatica a non voltarmi.
Adesso
sono consapevole di tutte le bugie che mi hai detto.
sono consapevole di tutte le tue follie.
sono consapevole dei tuoi atti di mancata bellezza per noi.
Sono consapevole anche della tua assenza.
Sono consapevole di quanto abbia desiderato (desideri) la tua presenza.
Meno. Molto meno.
Ma ti sento.
Presenza.
Quella del tuo corpo che tu non ami abbastanza
delle tue mani spesse che ho baciato lentamente
delle tue labbra che se chiudo gli occhi ancora ricordo il calore.
Quella della tua testa, delle tue parole, dei tuoi racconti.
Mi sono fatta chiesa. Confessionale. Piazza. Vicolo e balcone.
Ti avrei accolta, custodita, protetta e amata.
Ti avrei amata a lungo
nonostante avessi scoperto le tue bugie.
Ti avrei
nonostante
le tue follie.
Nonostante la mia fame di solitudine.
Ma forse sono un participio assente.
L’amore si celebra nella mia testa e non vorrò più coniugarlo.
Sono stanca, disfatta e assente.
La solitudine è l’unico atto di verità di cui dispone un individuo sano.

Una donna nel mio letto.
Due donne sul mio corpo.
Tre donne alla mia tavola.
Manco io.
Manchi tu.


https://open.spotify.com/track/7bs5lJ53etBIgbIQnAoiSv?si=43cabdf743334f2b


photo: How to build a relationship with layered meanings, Pixy Liao, series Experimental Relationship, 2007 http://www.pixyliao.com/experimental-relationship

Non voglio essere l’ultima a mangiarti

Non voglio essere l’ultimo a mangiarti.
Se allora non ho osato, adesso é tardi.
Non soffia più l’antica fiamma e berti
non placherebbe sete che non arde […] 

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Se è così facile

Se è così facile perdersi.
Se è così facile mancarsi.
Perché non è così facile (ri)trovarsi?

foto: You Push me, Pixy Liao

Come vivono i morti senza amore?

Mi piacerebbe incontrarti per caso.
Ma per caso non esiste.
Non per noi che siamo figlie di geografie cancellate dalla mappa.
«Potrei morire e tu non lo sapresti», mi hai detto un giorno
Un giorno in cui io ho pensato:
«Come vivono i morti senza amore?»

Telleena, 2023

Anche se è una giornata di vento

Sono fortunata perché mentre non ci sei
davanti al mio sguardo c’è un palazzo alto sei piani,
e una grande finestra
su cui scorrono veloci i volti ingrossati di nuvole
soffiate via dal vento.
Rimane sempre qualche immagine a riempire il vuoto.
Un vuoto in cui non esiste assenza
Un’assenza in cui non esiste vuoto.

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Voglio che tu sappia una cosa

Quando leggi le lettere che amori consumarono nelle notti che li separarono. Quando leggi quei tormenti. Quando leggi di come appassionato e tormentato fosse. Quando ti sei chiesta perché lei non accettò, perché lei rinviò, perché rifiutò. Quando ti sei chiesta perché questa difficoltà a lasciarsi andare, a lasciare entrare. Quando ti sei chiesta se mai a te sarebbe capitato. Quando ti sei chiesta se qualcuno ti avrebbe guardata con tanta avvilita passione. Ricorda che sarai stata anche tu pagina di letteratura nella carne, nelle ossa nel sangue. Ricorda anche se nessuno leggerà di te. Ricorda che sei la lettera che stanotte scriverò, sei l’amore non corrisposto e l’avvilente emorragia di parole che nessuno leggerà, che tutti leggeranno, che tu mai saprai. Ma tu ricorda, anche se non saprai, che qualcuno avrebbe potuto amarti con disperante abbandono.
Quando penserai che nessuna. Quando penserai che mai. Quando penserai. Quando mi penserai e non saprai che è stata la mia mano a muoversi sul tuo corpo addormentato, a registrare i tuoi respiri pesanti, le tue parole farfugliate nel sonno, a tracciarti il corpo e a seguire le costellazioni dei tuoi nei e a sorridere del tuo sonno e di tutti i tuoi folli avvilimenti.

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Arrivo tardi (e infinite sono le resurrezioni)

«Nel mio Smarrimento/ pongo la domanda estrema/ Può chi ha smesso di essere/ Avere avuto mai esistenza/ Non più un tu come mittente/ non c’è destinatario/ con cui poter scherzare sulla realtà defunta/ Può chi è ancora/ essere inesistente?/ Sono diventata Cieca/ nel rispondere/ al tuo morto linguaggio d’amore».
Mina Loy

Arrivo tardi anche alla mia festa di addio
è una sorta di funerale storto
in cui sono l’unica invitata

Avete presente quelle celebrazioni sontuose
con feretro al centro in cui
una corda delimita lo spazio
del corpo morente (?)
è ridicola – non trovate – l’ostentazione della distanza
come se la morte ne conoscesse e facesse disparità
Abbandonando la sua livella in un angolo

in attesa che il ragnetto venga fotografato
e gli applausi si esaudiscano
e i cavalli si inchinino
e le bandiere ferme in apnee a mezz’asta
riprendano la risalita

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Imbalsamatrice di amori

“L’importante è cercare, non importa se si trova o non si trova.” Antonio Tabucchi, Per Isabel: un mandala, 2013

Singapore, 2044
Tratto di una storia vera. Ogni donna che ho amato potrebbe riconoscersi. Confondersi. Perdersi. Ritrovarsi.
Ma io?! Io no. Io non sono mai stata ciò che loro hanno visto. O voluto vedere. Così è iniziata la storia della nostra perdita quando ci incontrammo

No, no che non ti ho dimenticata. Sul letto la sindone dei sogni precedenti. Ricordi di cosa abbiamo parlato?
Era un addio all’amore. Un vuoto profondo accorgersi che ti ho riposto in fondo alla scatola. Quasi diciotto anni dopo il nostro addio, la nostra carne fusa alla carne di un’altra, altro indirizzo, geografie lontanissime che non abbiamo più attraversato, parole versate su altra bocca e lingua a raccogliere un piacere che non è più nostro. Intanto fuori dal finestrino dell’auto che mi trasporta in questo inferno, Han (il mio autista che mischia l’inglese al malese rendendo incomprensibile gran parte delle cose) mi spiega dove siamo e cosa vediamo. Il mio sguardo si contrae e rilascia come il cielo di questa mattina uggiosa, le sue parole continuano pertanto a galleggiarmi sopra la testa senza raggiungermi del tutto.

Prendo in mano il telefono, rileggo la conversazione di qualche settimana fa dopo il chiassoso silenzio sbattuto in faccia senza premesse. Dopo: “come puoi amare un’altra allo stesso modo in cui hai detto di amare me“. Ho lasciato cadere la domanda passandoci sopra con altre parole. Che razza di domanda è? mi sono detta. Due donne adulte, che non si vedono da diciotto anni. Che razza di domanda è?! Ho tracciato il perimetro del mio appartamento come fosse un circuito automobilistico. Fuori si vedono i grattacieli, sul tetto in fondo se chino leggermente la testa a sinistra c’è una piscina. Le luci esplodono di notte, di giorno si impone il verde di giardini verticali, orizzontali, plastici, opportunamente costruiti per scontare la pena di questo vetro, di questo cemento. Eh sì, è qui che ti ho maledetta, per averti fatta entrare, di nuovo. (Ma quando esattamente sei uscita?).

Lo specchio mi restituisce la dimensione delle cose. La mano scivola sulla fronte come per rassettare i millemila pensieri che mi passano per la testa. Penso a come potrei dirti che in questi anni la vita è stata crudele, che dubito di Dio e dell’amore per ogni cosa, che la mia innocenza c’è ma fa fatica, molta fatica perché qualcuno continua a masticarla.

Marta, sono una donna adulta, sono molto cambiata…“. Lei ride di rimando, mi dice che non è vero. Anche se al telefono la sua voce ha l’effetto di incalzarmi, come se ci trovassimo nella stessa stanza e lei pian piano mi spingesse all’angolo. “Per il mio passato, per la nostalgia che mi ha legato a te, per l’assenza che mi sono portata addosso” ripeto come fosse una preghiera, mentre indietreggio. Mentre avanza e mi faccio terra sotto i suoi piedi. Sprofondo nella mia poltrona girevole mid century con un vistoso taglio sul bracciolo destro da cui fuoriesce uno sbuffo di gommapiuma ingiallita. “Tu mi hai cambiata” ti soffio all’orecchio nell’ultima speranza che veda finalmente il dolore di questi anni.

Proprio adesso mentre scrivo di te a una pagina estranea alle nostre vite, mi mandi un tuo autoscatto, ti dico che il tempo non sembra essere passato (ma il tuo sorriso è triste e corrotto dal dolore). Continui a inviarmi traiettorie del tuo sguardo in questa città bianca che stai attraversando, mentre giri un altro pezzo di mondo in una prospettiva in cui esisti solo tu, ma se spostassimo di quel poco l’obiettivo vedrei la donna che ha preso il mio posto. Se spostassi l’obiettivo vedresti la donna che ha preso il tuo posto. Il suo nome non mi è concesso dirlo, quando ho provato ti sei irrigidita, anzi ti sei proprio incazzata. Lei, la mia C., rimarrà sempre la fine del nostro amore.

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Acrostico di un nome inesistente

C’è un sito carino (una cosa leggera, per cazzeggiare eh! altrimenti chi li sente gli antichi greci) in cui è possibile generare acrostici (acrostico: dal greco ἄκρος “sommo” e στίχος “verso”; tipo di poesia in cui le iniziali dei singoli versi, lette nell’ordine, formano una parola o frase a partire da un nome), in poche parole un generatore automatico di poesie e acrostici online. Non so neppure come io vi sia finita se non attraverso i girotondi che talvolta si aprono nella mia mente. Questa casualità (perché lo è) si cuce addosso a un pensiero che mi porto appresso da giorni: il nome.

Il nome non è la persona.
Il nome è la larva.
Di tutti i circostanti,
a malapena è salva
famelica – l’icona.

(Eroi, e figuranti.)

Giorgio Caproni, «Il nome», in Il Conte di Kevenhüller, in L’Opere in versi, Milano, Mondadori, 1998

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{dove i pensieri diventano storie e le storie traiettorie ~ Telleena Sbacchi}

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