
«Ogni momento accade due volte: all’interno e all’esterno, e sono due storie diverse» – Zadie Smith
Un happy ending tutti lo vorrebbero. Non prendiamoci in giro. Mi volto e guardo oltre la finestra spalancata, la feritoia rossa di una tenda a mezz’asta. Sento rumori assordanti provenire dalla strada e mescolarsi alla musica. Solo piano. Il cellulare lampeggia mille parole e più di disordinati messaggeri. Non ho molta voglia di rispondere, e digitare sui piccoli tasti touch screen mi innervosisce. Mi innervosisce anche questa stretta allo stomaco che sembra più lo scolo di un rubinetto rotto. Potrei chiudere gli occhi e immaginare il silenzio. Qualche anno fa seguii un corso di yoga dove ti insegnavano a respirare, a immaginarti punti colorati sopra la testa, a trascendere perché tu sei il microcosmo nel macrocosmo, e cose del genere. Mi insegnarono a respirare e sentii le mie branchie irrigidite quasi spezzarsi. «Immaginate il dolore come una lunga linea a cui abbandonarsi». E io chiudevo gli occhi e mi abbandonavo a quella linea di dolore, mentre china sul cesso stavo male per quegli spasmi che mi spezzavano in due e che in qualche modo, scoprii anni dopo, erano collegati alla piccola noce che mi cresceva nel cervello. Non fu un periodo granché bello. Lei ha un tumore signorina, e così via. «Potrebbe non potrebbe…». Decisi, in qualche modo, di stare ferma. Ora questa è una verità a cui mi piacerebbe mescolare finzione, per allontanarmi da questo pensiero matriosca che potrebbe inghiottirmi. Oggi non è la giornata adatta per farmi fagocitare. Oggi voglio un happy ending, che suoni come il mio inglese spizzicato e impreciso (lei me lo ha ripetuto sino allo sfinimento). Chiudo in un pugno i pensieri e li getto da qualche parte (anche questo me lo ha insegnato qualcuno). Il muso del mio cane al sole mi intenerisce, dorme e sogna, muovendo le zampe in un prato che sta immaginando. I cani hanno un’anima? Anche su questo gli esperti si spaccano, come se ogni cosa dovesse essere per forza discussa, approvata, sviscerata. Come se ogni cosa dovesse avere una spiegazione, e perché no, il suo happy ending. I cani, allora, hanno un’anima, e ci aspettano quando muoiono davanti all’enorme cancello di oro zecchino, e scodinzolano quando scorgono il nostro passo immortale avvicinarsi, e leccano la nostra cazzo di faccia ectoplasmatica. Non hanno bisogno di guinzagli né di museruole, e saremo capaci di discutere perché parleranno, o forse parleremo noi la loro lingua. Così staremo lì accovacciati in un angolo di paradiso a raccontarci di questa o quella volta, e dirci tutto quello che non eravamo mai stati in grado di dirci… Il mio happy ending.
Anche Spuntì sogna, almeno credo 🙂
Ci vogliono anche gli happy ending, assolutamente.
Necessari… 🙂