
Sono di nuovo qui, ho slegato il filo stretto sulla scatola su cui ho inciso il tuo nome. Il sottotitolo continua a restare il mio, sbiadito e assente sotto il peso del tuo. Le parole non sono mai scelte per caso. Ci sono parole che ci appartengono, parole che ti appartengono e che non pronuncerò più. Ci sono parole come filo, manine, topina, milano, kate bush, gravità, chilometri, solo tua, scopami, tu, io, stiamo insieme, curami, prendimi… Ci sono parole, le più stupide, le più necessarie, che la lingua non articolerà più nella bocca. Ed è una già sconfitta, questa grammatica assente che ti restituisco adesso. Ed è già una menzogna quella che il linguaggio (mio) ha imparato, e le mani (sebbene talvolta si ‘muovano a vuoto’ sulle linee immaginarie del tuo corpo assente, in spasmi che non riesco a controllare). Sono gli altri a credere alla menzogna, sono gli altri a volerlo credere, perché così è più comodo. Mi chiedono, ma in realtà non lo fanno, non sono interessati alla risposta. Non alla verità. Mi guardano, ma in realtà non mi vedono. E preferiscono credere che sì, sia difficile, ma che io stia meglio. I miei occhi però non hanno imparato quella menzogna, sarà per questo che evitano il mio sguardo. Lo evito anch’io, distrattamente davanti lo specchio sistemo le ciocche ribelli e osservo il mio nuovo taglio. Distrattamente ignoro i nasi dei miei occhi cedere alla gravità (gravità…). Fanno male le attenzioni ancor più della solitudine. Non busserò più alla tua porta e tu, tu non lo farai. Lo abbiamo deciso sbattendoci in faccia il primo (l’ultimo, quello lungo e perpetuo) silenzio, quasi un mese fa. Quasi un mese fa. Ma ero gocciolata lenta da te, da oltre un anno. Ho imballato i se e i ma con quella carta trasparente da imballaggio che mia sorella ama far scoppiare con le sue dita impazienti. Ho fasciato al corpo di quei se-ma strati e strati di carta, per tenerli in fondo a quella scatola, e zittirne i chiacchiericci.
La verità è che tutte le parole ti appartengono, e che anche quelle che mi vengono regalate sono tue. La verità è che sei stata l’unica, e che fa male pensare io non lo sia stata. Sei arrivata affannata e impaziente mentre andavo via. Mi hai detto ti ho sempre amata, che mi ami. Mi hai preso per pazza e dato tutte le colpe di questa fine. Mi hai maledetto mentre mi dicevi di amarmi. Ma non dimenticherò mai tutte le postille di quella frase in cui declinavi le parti di me che ti piacevano e quelle che hai sempre odiato, allontanandoti. Quelle a cui, anche quest’ultima volta, mi hai detto di dovere rinunciare. Si può amare con riserva? Si può amare qualcuno a mille chilometri e più di distanza senza sentire la necessità di farla tua, di averla tua in ogni momento della giornata, accontentandosi di un paio di volte all’anno? Ti volevo tutta, e di te ho amato le cose più odiose, le cose che non ho mai sopportato negli altri. Ti ho amata senza riserve, ed è proprio lì che mi sono persa, che ho perduto me stessa. Così il bilancio (il tuo) non può essere l’amore. Sì, non ti credo.
Sei arrivata in ritardo con parole che avrebbero dovuto dire “Noi, adesso”. Speravo, come in quei film, (che stupida che sono) che tu tornassi da me e mi dicessi “Ora, adesso. Vieni da me (e il mio nome), stai con me (e il mio nome), vieni a vivere con me…”. Ma tu hai preferito credere che ti avessi tradita, ma io lo so, so che non puoi crederlo davvero. Avevi bisogno di un alibi, di strapparmi con dolore e disprezzo. Così è stato.
Ora non mi resta che compiere il tuo ultimo desiderio Cassandra: farmi del male e arrivare in quel punto di non ritorno. Non con lei, non con chi pensi tu, ma ho aperto la porta a nuove attenzioni, e lascerò che mani impazienti mi feriscano e strappino tutto da me. Lascerò che le loro mani affondino in me come artigli incoscienti.
Sarò il mio ultimo regalo a te. Me senza me.